Islam, la rabbia dei popoli contro i despoti amici d’America e Israele

«Mentre la rabbia per Gaza cresce – titolava ieri il New York Times – i leader arabi reprimono le proteste». Un articolo, quello del giornale americano, che ha il merito di spostare la nostra riflessione su un aspetto finora trascurato della crisi mediorientale: quello relativo agli umori ‘divergenti’ delle popolazioni, rispetto alle politiche ufficiali dei loro governi.

Governanti ‘partner’ e popoli nemici

Paesi come l’Egitto o la Giordania, ritenuti dagli analisti «partner dell’Occidente», sono, in effetti, realtà ben più complesse con cui trattare. Un dato di fatto che dovrebbe indurre la diplomazia, specie quella della Casa Bianca, alla prudenza, visti i fragili equilibri sociali, politici ed economici esistenti nella regione. «Il dolore e la rabbia per la guerra e per Israele – scrive il NYT – hanno portato a manifestazioni in tutto il mondo arabo. Gli arresti suggeriscono che i governi temono che l’indignazione possa avere un effetto boomerang». Dunque, gli stessi leader arabi ‘moderati’ temono che la causa palestinese possa avere un effetto moltiplicatore sulle proteste, finendo per travolgere tutto e tutti.

Paesi arabi a maggior rischio. Egitto primo

In testa alla lista dei Paesi considerati ‘a rischio’ c’è senza alcun dubbio l’Egitto. Per la verità, El-Sisi ha cercato di fare, in diverse circostanze, la voce dura con Israele. Ma quando la protesta interna ha cominciato a rompere gli argini è dovuto intervenire. All’inizio del mese ci sono stati numerosi arresti, durante manifestazioni al Cairo. I ‘consiglieri’ della Cia, di stanza in Egitto,  temono una possibile saldatura tra le proteste per Gaza e quelle che potremmo definire «rivolte per il pane». Perché l’economia egiziana sta collassando. Intanto, piovono critiche di tutti i tipi su El-Sisi. A cominciare dagli aiuti nella Striscia di Gaza. Un varco che doveva essere controllato dal Cairo e che, invece, è soggetto ai diktat delle forze di sicurezza israeliane. La piramide egiziana, con un vertice formalmente pro-americano, ha una gigantesca base che traballa.

Di cui Blinken deve tenere conto, per evitare sgradevoli sorprese, ricordando che, nelle ultime elezioni veramente libere, gli egiziani avevano scelto i Fratelli Musulmani di El-Morsi.

I Re di Giordania e Marocco, e i ‘sudditi arrabbiati’

E la Giordania? «Il governo di Amman – spiega il NYT – intrappolato tra la sua popolazione a maggioranza palestinese e la sua stretta cooperazione con Israele e con gli Stati Uniti, ha arrestato almeno 1500 persone dall’inizio di ottobre, secondo Amnesty International. Ciò ne include circa 500 a marzo, quando si sono svolte enormi manifestazioni davanti all’ambasciata israeliana».
Ancora più ingarbugliata la situazione in Marocco. Qui si susseguono, praticamente senza sosta, dallo scorso ottobre, le manifestazioni a sostegno della Palestina. Ogni weekend, in tutte le principali città, cortei di marocchini chiedono una ferma presa di posizione a Re Mohammed VI. Il quale però si è chiuso in un assoluto mutismo. Il problema, dicono gli analisti, è che la popolazione non ha digerito i cosiddetti ‘Patti di Abramo’, cioè la normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele, voluta da Trump. Accordi fatti firmare al Partito islamista di Giustizia e Sviluppo, che così ha perso i tre quarti dell’elettorato.

Golfo Persico, l’Iran, e il mondo arabo-americano

Né, si può dire, che il clima sia migliore nel Golfo Persico o in Arabia Saudita. Qui il chiodo fisso degli sceicchi è uno e uno solo: l’Iran. Tutto il resto viene dopo, a cominciare dai palestinesi. Un piccolo Stato arabo, il Bahrein, è anche la più grande base navale americana della regione. Sede di comando della Quinta flotta. E quando ha dovuto scegliere, tra le chiacchiere e i fatti, non ha avuto dubbi: ha preso a manganellate chi dimostrava a favore della Palestina. Anche se i suoi cittadini non gradivano (manco loro) il ‘Patto di Trump’.

Alleati tra potenti e legnate in casa

Insomma, funziona così con gli arabi ‘moderati’. Non sono né ‘alleati’ e manco ‘amici’, nel senso più classico del termine, ma solo Stati con i cui vertici c’è una comunanza di vedute e -sopra ogni cosa-, di interessi. Il problema vero, però, è che i governi di questi Paesi non sono il frutto di un genuino processo democratico. Si tratta di forme di autocrazia, spesso molto distaccate non solo dalla base, ma anche da tutti i livelli intermedi del potere. Per cui, fa capire il New York Times, spesso i regimi arabi pro-occidentali, a favore dell’America hanno solo i vertici. Il resto proprio no. Come si potrebbe descrivere, allora, il fenomeno sociopolitico che ha interessato questo spicchio di pianeta? Definiamolo, «dalle Primavere arabe, all’Autunno di Gaza». In poco più di un decennio, i Paesi islamici situati tra il Nordafrica, il Medio Oriente e il Golfo Persico sono tornati a ribollire.

Orbi e sordi

I contorni di questo vasto scenario un po’ ci sfuggivano, perché ritenevamo (sbagliando) che il conflitto israelo-palestinese, pur gravissimo, avesse dei confini precisi. Fosse ‘localizzato’, insomma, non tanto territorialmente, quanto piuttosto dal punto di vista geopolitico. E invece no. Gaza è la metafora di tutte le crisi vecchie, più piccole, regionali. Che oggi si saldano, si rinforzano, si auto-organizzano e diventano inestricabili. Talmente complesse, che nessuna diplomazia riesce a scioglierle.

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