
In Europa costerà molto di più alle imprese (e ai consumatori) inquinare l’atmosfera, con i vapori di CO2. Chi ‘decarbonizza’ di più si guadagnerà l’affetto imperituro dei posteri, sempreché, nel frattempo, non abbia mandato alla malora la sua economia.
‘Vasi comunicanti’ il ‘cane che si mode la coda’
Nel mondo globalizzato, quello che decidi di non commerciare più, lo produrranno certamente altrove. Vale con le sanzioni, che se le applica l’Europa, qualcuno in qualche altro continente ci sostituirà sul mercato. E vale per l’inquinamento dove, se lo riduci in casa ad alti costi, altri, con carbone e petrolio a basso costo moltiplicheranno emissioni e concorrenza.
Il problema è molto semplice, ma angosciante nello stesso tempo. Le energie rinnovabili ancora non sono concorrenziali con quelle fossili. E la spinta virtuosa verso le rinnovabili, nell’immediato può avere effetti collaterali non sempre accettabili da tutti. Primo, la catena di formazione dei prezzi si carica di un costo aggiuntivo, alimentando l’inflazione. Due, si rischia la delocalizzazione delle imprese, in nome della ‘decarbonizzazione’.
Se, infatti, la transizione ambientalistica a tappe forzate è particolarmente popolare in Europa, lo stesso non si può dire per molte altre zone del pianeta. E se le maggiori democrazie industriali occidentali rinunceranno (come dicono di voler fare) molto presto all’utilizzo dei carburanti fossili, il prezzo di questi ultimi crollerà e la loro ampia disponibilità sarà sfruttata dai ‘giganti’ dell’Asia e dell’Africa. Questi Paesi, probabilmente (e paradossalmente), finiranno per inquinare più di quanto facciano attualmente.
Lo scenario è tratteggiato efficacemente da Mark Lewis (Andurand Capital Management), che cita i ‘Crediti ETS’ inventati dall’Unione (100 euro a tonnellata per scarti di CO2 oltre i limiti fissati). Acquisti crediti, paghi e inquini. ‘Licenza ad inquinare’, ma con costi promessi a crescere, avverte Bruxelles per arrivare ‘zero-carbon’ entro il 2039.
L’acronimo di Ets, o il mercato delle emissioni di Co2 in Europa, indica l’European Union Emissions Trading System. Uno dei principali strumenti dell’Unione europea per la riduzione della Co2 nei principali settori industriali e aviazione.
Finora, la più ‘dura e pura’ sul fronte ambientale è stata l’Unione Europea. Gli altri, come gli Stati Uniti, si arrangiano. O, come la Cina e l’India, che promettono ma non mantengono. Negli Stati Uniti, per esempio, divampano le polemiche anche ai piani alti della politica. In molti dicono che il sistema americano delle quote di CO2 emesse, comprate con i “crediti”, è tutto un imbroglio. Diversi senatori democratici, tra cui Bernie Sanders, hanno chiesto al Congresso di chiarire alcuni punti che, forse, consentono scappatoie alle imprese. Per quanto riguarda l’India, invece, basta solo ricordare che a Glasgow, alla ‘COP26’ sul clima, Narendra Modi ha dichiarato che il suo Paese sarebbe diventato “carbon-neutral” solo nel 2070.
Notoriamente, la situazione non è più brillante in Cina. Anzi. Xi Jinping pare che si sia rimangiato tutti gli impegni ambientalistici, che erano stati presi negli ultimi anni, quando Pechino era arrivata ad aprire una centrale a carbone quasi ogni settimana. Nel 2021, le autorità amministrative dello Shanxi hanno multato una società (la ‘Jinneng Holding’) per avere superato i limiti di estrazione del carbone in più di 50 siti, dopo una serie di terribili incidenti. In un solo impianto i minatori avevano estratto il 400% in più di minerale. Ma la punizione si è rivelata un fuoco di paglia: da Pechino le direttive sono state quelle di darci sotto, senza esitazioni. Così, la “Jinneng” ha potuto scavare ben 380 milioni di tonnellate di carbone, diventando il secondo produttore in assoluto della Cina.
Bisogna dire che, forse per ragioni di ‘maquillage’ politico, Xi per un certo periodo ha predicato una sorta di rivoluzione ambientalista, cercando, nei suoi discorsi, di sensibilizzare i massimi dirigenti e gli intellettuali del partito. Ma, poi, l’improvvisa ripresa post-pandemica ha capovolto tutti gli scenari. La necessità di avere maggiori quantità di energia a costi sopportabili, ha decretato il revival del carbone, grazie al quale oggi la Cina produce il 60% della sua elettricità. E nuove centrali, per miliardi di dollari, stanno per essere costruite.
Secondo Greenpeace East Asia, la Cina, ancora economicamente tramortita per i devastanti effetti del Covid, mira a recuperare il tempo e la crescita perduti. Lo strumento più veloce è il carbone, peccato che sia anche il più inquinante.