
Di fatto, l’unico dato attendibile di reale ‘espressione democratica’, secondo gli analisti, sarà il ‘non voto’. Gli altri candidati ammessi, servono solo a ‘fare numero’ e a mettere un coperchio di pluralismo a un sistema che è, invece, graniticamente autocratico. D’altro canto, gli americani sono stati chiari: l’Egitto è un alleato fondamentale, a libro paga del Pentagono, e deve dare, a tutti i costi, l’impressione di essere un Paese democratico. Anche se poi tutti sanno che al Cairo le cose vanno diversamente. Specie in questo momento, in cui a causa della guerra di Gaza, Biden perde colpi (e simpatie) a ogni latitudine.
Alle consultazioni partecipano, in un certo senso ‘pro-forma’, pure Fahrid Zahran (socialdemocratico), Hazem Omar (Partito popolare repubblicano) e Abdel Samana (New Wafd), una sorta di raggruppamento liberale. I programmi dell’opposizione contano non per vincere, ma perché leggendoli attentamente, ci si rende conto delle cose che veramente non funzionano nel Paese.
Primo, l’economia. Finora, El-Sisi ha tenuto buoni oltre 100 milioni di egiziani grazie a sussidi, prebende e prezzi amministrati. Come quello del pane, venduto a tariffa politica. Ma adesso, anche per colpa della guerra in Ucraina, il prezzo del grano è salito alle stelle e lo Stato ha dovuto saccheggiare le sue riserve di valuta pregiata per continuare a importarlo. Ma il debito estero si è accumulato, e i prestiti del Fondo monetario internazionale possono essere sbloccati solo adottando politiche di austerità. Cioè, cominciando a far pagare il pane per quello che costa. E anche il resto, a cominciare dall’acqua potabile.
Una situazione sociale esplosiva. E rischiosa. Tutti gli esperti di storia contemporanea e di geopolitica sanno che i movimenti di protesta, esplosi in tutto il Nordafrica e nel Medio Oriente col nome di ‘Primavere arabe’, erano in effetti vere e proprie rivolte per il pane. Sulle quali, successivamente, si sovrapponevano altre rivendicazioni, che andavano dalla sfera sociale, a quella politica, per finire a quella istituzionale. Quindi, El-Sisi deve maneggiare con cura la patata bollente rappresentata dalla fragilità finanziaria dell’Egitto. Perché può vincere le elezioni e perdere le piazze, con la gente, spinta dalla fame, pronta a ignorare i risultati molto ‘questionabili’ delle urne.
Con un’inflazione al 38% e con il costo dei prodotti alimentari salito, nell’ultimo anno, tra il 70 e l’80%, c’è abbastanza benzina pronta a essere incendiata dalla prima scintilla sociale o politica. La situazione è così deteriorata da spingere il regime ad anticipare le elezioni di tre mesi. El-Sisi si era convinto, infatti, che il sistema-paese, schiacciato dalla crisi economica, avrebbe potuto correre il rischio di esplodere prima di marzo.
L’indebitamento dell’Egitto è anche cresciuto per faraonici (è il caso di dirlo) progetti infrastrutturali proposti dal regime. Al dicembre 2022 il debito ammontava a 165 miliardi di dollari (quadruplicato in sette anni). La costruzione di nuove vie di collegamento, l’allargamento del Canale di Suez, la realizzazione di una nuova città-capitale, le spese militari, l’acuta crisi energetica accompagnata da numerosi black-out, sono gli elementi che hanno aggravato l’esposizione debitoria egiziana. E a completare un trend decisamente negativo, è arrivata la guerra di Gaza.
Secondo Bloomberg Economics, in termini di rischio default l’Egitto è secondo solo all’Ucraina.
E qui, secondo il think-tank Stratfor, occorre fare una riflessione. Gli analisti americani pensano che la durezza dell’operazione militare israeliana, ma soprattutto i ‘rumours’, che parlano di spostamenti forzati dei palestinesi dalla Striscia al Sinai, abbiano, in qualche modo rimesso in gioco El-Sisi. Il suo secco rifiuto di appoggiare quella che, in effetti, si sarebbe rivelata un’operazione di ‘pulizia etnica’ della Striscia di Gaza, gli ha fatto guadagnare molti consensi nella base della sua popolazione. Uno spicchio di popolarità che il rais non vuole lasciarsi sfuggire e che può tornargli comodo, dopo avere superato delle elezioni altrettanto ‘di comodo’.
Resta davanti a El-Sisi quella che è la crisi nera della sua economia. I fondamentali sono terribili. Un terzo della popolazione è classificato ‘in povertà’. Cioè, fa la fame. La benzina è aumentata in un giorno del 15%, mentre Fitch e Moody’s, le società di rating, hanno assegnato ai titoli del debito pubblico egiziano il livello di affidabilità più basso. Quasi carta straccia.
Non appena El-Sisi verrà rieletto, ‘se farà il bravo’, Biden metterà la sua buona parola e gli farà arrivare i soldi del Fondo monetario internazionale. E, allora, i palestinesi di Gaza andranno dove dice la Casa Bianca, e non certo dove vuole El-SiSi.