
«Si può iniziare una riflessione geoculturale prendendo spunto da un capo d’abbigliamento, la cravatta?» si chiede strumentalmente Romano Ferrari Zumbini, avendo già la sua risposta. «Forse sì. Da quell’accessorio di stoffa, talora frivolo, si può intravedere una linea di faglia, quella fra Occidente e il mondo. Quella faglia che emerge da ripetute votazioni all’Onu esprimendo una drammatica spaccatura, che non è solo politica ma culturale». Dell’origine della cravatta già abbiamo detto. E come tantissime altre cose dell’Occidente, è stata esportata dappertutto.
Da qualche decennio lo stesso Occidente si compiace di non indossarla più, almeno non sempre e non in tutte le circostanze anche ufficiali mentre in altri luoghi – a parte alcuni paesi a trazione musulmana, come l’Iran – la si indossa con rigore: si pensi ai consessi ufficiali in settembre a Samarcanda (Organizzazione per la cooperazione di Shangai) o in ottobre al XX congresso del Partito comunista cinese a Pechino. «Sarà un dettaglio, ma non è casuale; indica qualcosa di profondo».
Un tempo in Occidente si distingueva fra vita privata e vita pubblica, fra vita senza vincoli formali verso terzi e vita vincolata compreso vestiario prestabilito in relazione al contesto. «L’abito come un termometro che misurava il livello di obbligazioni verso terzi. Con vincoli non scritti». Ma da un po’, la divisione netta fra vita pubblica e privata è saltata. Anzi, sempre più spesso l’apparenza privata è usata strumentalmente nella versione pubblica. Rimossi certi vincoli in nome dell’emancipazione, della libertà, della disinibizione, dell’anticonformismo, della ribellione.
A volerci credere, «È la narrativa del liber: tutto va bene se libero, liberale, libertino, liberista e così via. Del resto, libertinage nel lessico dello scrittore francese del XVII secolo Jean Racine equivaleva a “libre pensée“».
Basta un film degli anni Cinquanta o primi Sessanta per vedere il mosaico di regole non scritte, espressione della cornice sociale dove prevaleva il collettivo. «Nell’estate 1967 si tenne un gigantesco party al Golden Gate Park di San Francisco, organizzato dalla locale comunità hippie». ‘The summer of love’ dopo di che gli studenti tornarono nelle loro sedi universitarie, non si vestirono più come prima dell’estate. «Ai canoni dell’Ivy league (giacche Harris Tweed e camicie Brooks Brothers button-down) subentrò l’informalità». Il colpo finale arrivò nel 1969 con Woodstock.
Con gli anni Settanta arriva un ‘terzo genere’, un abbigliamento tra abiti di sartoria e parziale informalità. Morte dell’artigianato sartoriale a colpi dell’ideologia (liber- di cui sopra) e il mercato (interessi monetari), la sintesi di Romano Ferrari Zumbini. La forza del globalismo del XXIesimo secolo alleatesi hanno creato una narrativa inarrestabile, evoluta poi nella fase più del globalismo. E la cravatta è divenuta spesso «emblema della deprecabile mascolinità tossica».
«Un tempo, vestirsi bene era per poter salire: da fine secolo in poi il vestirsi normale era invece un must per non apparire superiori». «In Occidente è maturata la vergogna di sé (risalente agli anni della guerra 1914-18), che si è poi trasformata in odio di sé (dalla guerra 1939-45)…».
La vita quotidiana esige scelte, che nella società dei consumi esaltano l’individualismo (apparente) delle scelte (apparentemente) libere. «Ogni acquisto nell’orizzonte del consumismo crea un panorama identitario: quindi, non è più la fede o l’ideologia, ma l’acquisto di un bene (presumibilmente con un logo) a fornire identità. L’individuo del benessere cerca sicurezze nelle similari condotte altrui».
«Eppure, in un mondo nel quale tutti vogliono esser diversi, l’esser diverso è normale. Ciascuno vuole essere minoranza da tutelare per meglio appartenere alla maggioranza. Nessuno vuole essere normale, ma vogliono essere intesi come normali. Tutto indistintamente confluisce nella norma, il che equivale a dire che la norma non esiste».
Gli insegnamenti dei neo-illuministi del dopo-guerra, da Jean-Paul Sartre a Michel Foucault sostengono, ad esempio, che ciascuno ha diritto a esprimere il suo senso artistico, emancipato dalle gabbie dei canoni prescritti. Per cui, se ciascuno è legittimato a sentirsi artista, l’arte si dissolve e non esiste più. Ma cosa c’entra la cravatta in tutto ciò? Si chiede lo studioso.
Tutta la narrativa del liber-, di ogni meccanismo di vincolo nella società, del plus-godere della società dell’eterno presente hanno imposto, tra le tante altre cose, l’abrogazione della cravatta. «Ma le altre culture non hanno avuto il dono di abbeverarsi a Sartre, Foucault, Lacan e colleghi; quindi non conoscono i “vantaggi” del liber-. Lo stereotipo di coltivare lo stereotipo del rifiuto di tutto concretizza il nulla».
«Un Occidente che accetta l’imputazione di razzismo strutturale (negando però l’esistenza delle razze); cui interessa mortificarsi per il passato coloniale (fingendo di tutelare i diseredati); cui interessa tutelare i diritti dell’uomo (tacendo di fronte alle violazioni dei paesi potenti); cui interessa “difendere” il clima minando il proprio sistema produttivo, acquistando invece prodotti da paesi serafici di fronte ai danni climatici che disinvoltamente e in misura maggiore arrecano al globo, per di più sfruttando lavoratori con normative lassiste e impensabili in Occidente».
«Siamo al paradosso di un rito, quello della cravatta, che l’Occidente aveva creato e ha obnubilato, mentre nelle altre culture viene strenuamente praticato a riprova di una istintiva emulazione dell’Occidente stesso. L’abolizione ostentata della formalità – e del ricorso alla cravatta – indica quello che i non occidentali vedono come una regressione».
La faglia di incompatibilità fra i due mondi si apre sulla linea invisibile fra chi è in fuga dall’Occidente (pur essendo occidentale) e chi ha nostalgia dell’Occidente (pur non ammettendolo).