
La politica estera degli Stati Uniti viene spesso descritta come tensione tra moralità e interessi. Famosa la formula di Henry Kissinger: «Come può l’America avanzare il proprio ruolo di esempio umano e campione della giustizia in un mondo in cui il potere è ancora l’arbitro finale? Come possiamo conciliare fini e mezzi, principio e sopravvivenza?». Il cuore del problema è che gli Stati Uniti riescono sempre meno a mobilitare la loro popolazione per le sfide internazionali. La popolazione americana non sente più di appartenere a una nazione eccezionale, eletta da Dio, titolare di una missione universale. Per secoli questa altissima idea di sé ha giustificato l’espansione della potenza statunitense, con la scusa di civilizzare il mondo.
In un recente sondaggi, solo il 21% degli intervistati ritiene di abitare in «the greatest country on Earth». Credersi il Paese più Grande al mondo è opinione minoritaria, e la meno popolare, battuta da «uno dei paesi più grandi» (50%) e addirittura da «altri sono migliori» (27%). Dal 2013 al 2021 è diminuita dal 64 al 44% la percentuale di chi ritiene che il Signore abbia assegnato agli Stati Uniti una responsabilità speciale nella storia dell’umanità’. Il nucleo di valori attorno a cui il governo centrale può radunare gli americani attorno a una missione collettiva è sempre più ristretto.
Ridurre gli impegni militari internazionali. Il dato più visibile è il calo degli arruolamenti. L’Esercito ha mancato del 25% l’obiettivo per il 2022. Armare l’Ucraina va bene soltanto perché non si combatte direttamente e perché quell’onere finanziario non è ancora entrato in conflitto con altre priorità di spesa. Al Congresso entrano nuove generazioni di politici, a destra e a sinistra, assai critici della politica estera tradizionale, convinti che la principale minaccia sia il cambiamento climatico (i liberal) oppure la Cina (i conservatori), ma soltanto per via dei suoi furti industriali. Molti di loro non interverrebbero a difesa di Taiwan.
Gli Stati Uniti entrano nella fase calda della sfida con Pechino e Mosca senza aver chiaro chi è il nemico principale. In un sondaggio Gallup, gli americani di orientamento liberal rispondono per il 53% Russia e per il 30% Cina; quelli di orientamento conservatore 76% Cina e 12% Russia; gli indipendenti 46% Cina e 32% Russia. Gli Stati Uniti sono stati in guerra per gran parte del tempo in cui hanno avuto il primato. La supremazia armata globale (Pax Americana) è stata ‘principio ordinante’ del secondo dopoguerra. Ma la progressiva minore disponibilità al confronto genera smottamenti. In Medio Oriente o in Ucraina, con dubbi sulla credibilità delle garanzie di sicurezza date ai Paesi satellite.
Il versante economico dell’inserimento nella sfera d’influenza statunitense. Dal 1945 gli Stati Uniti importano merci ed esportano investimenti manifatturieri. Ma oggi non propongono più accordi di libero scambio. Usano il loro potere per fare concorrenza industriale ai partner (chip, auto elettrica). Invece di promuovere investimenti all’estero, vanno a caccia di investimenti stranieri in Nord America. Gli apparati provano a far passare nei poteri economici il concetto di ‘corporate national security responsibility’. Partecipare alla pressione economica sulla Repubblica Popolare. Moltissime aziende resistono, salvo quelle su alte tecnologie di nicchia.
Gli statunitensi si sentono meno occidentali e più globali e questo indebolisce il legame identitario con il Vecchio Continente. Joe Biden è l’ultimo politico di spicco convinto che il primato americano in Europa sia premessa di quello nel mondo. Alcuni, soprattutto conservatori, disprezzano apertamente gli europei, da prima che Trump diventasse il loro leader. Durante il secondo conflitto mondiale, una ristretta cerchia di funzionari e intellettuali attorno al dipartimento di Stato e al Council on Foreign Relations, amministrazione Roosevelt, pianifica un dopoguerra centrato sulla supremazia militare statunitense, garanzia di una serie di istituzioni, tra cui le Nazioni Unite, pensate per strutturare il primato americano.
Il primato globale (guai chiamarlo impero) deve essere cementato nella mentalità collettiva dei signor Rossi d’Oltreoceano. Perché tanto zelo? I pianificatori non hanno paura dell’oggi, ma del domani. Temono l’americano medio e i suoi rappresentanti al Congresso. In futuro, il consenso verso la leadership globale potrebbe erodersi. Ed ecco che in America si ripete una lotta eterna tra internazionalisti e isolazionisti. Tra ‘forze del bene’ che vogliono l’affermazione degli Stati Uniti nel mondo e ‘forze del male’, oscure e retrograde, che vogliono invece ritirarsene. La narrazione è platealmente forzata, ma le sue conseguenze sono pesanti.
Da quando l’America è grande potenza, esiste uno ‘iato’ tra ciò che l’élite pensa sia necessario fare e ciò che essa pensa che la popolazione sia disposta a fare. Lo iato non è fisso. È minimo nei momenti di gloria, come la seconda guerra mondiale. Si allarga nei momenti di difficoltà, come quello attuale. In ‘Public Opinion’, Walter Lippmann scrive che la teoria democratica è costruita sulla sabbia, dal momento che i cittadini «sono bambini o barbari dal punto di vista mentale». L’orrore dei padri fondatori per un «eccesso di democrazia perché l’americano è poco incline a mettere il bene pubblico prima della sua vita personale».
In Rete circolano centinaia di documenti attribuiti al Pentagono. Jack Teixeira, ventunenne aviere della 102a unità d’intelligence della Guardia nazionale del Massachusetts, è accusato di averli trafugati e pubblicati sul social network Discord. Teixeira è molto religioso, ha opinioni razziste (il nome del suo gruppetto, Thug Shaker Central, evoca un epiteto verso i neri), teneva un arsenale in casa (pistole, fucili di precisione, una specie di Ak-47) con cui diceva di voler fare stragi. Nell’assalto trumpiano al Campidoglio del 6 gennaio 2020, ben 131 dei 968 imputati per quell’attacco hanno trascorsi militari. Eppure lo Stato spende un miliardo l’anno per ripulire i ranghi.
Gli Stati Uniti hanno già provato a farsi carico del mondo. Finendone bruciati. Ed esiste oggi una componente interna all’establishment che spinge per delimitare l’impero. A circoscrivere la missione. A inquadrare più formalmente gli alleati. Consulenti delle burocrazie suggeriscono criteri per distinguere gli alleati utili da quelli che remano contro nel contenimento tecnologico di Pechino o ancora di stabilire chi è «con noi e contro di noi» sui crimini di guerra in Ucraina. Un neocon come John Bolton propone di allargare la Nato a chi spende davvero per la difesa come Giappone, Australia e Israele e di formalizzare alleanze asiatiche.
La tattica americana affetta da schizofrenia strategica su tre fronti irrinunciabili: interno (primario), indo-pacifico, europeo. Troppe priorità, nessuna priorità. Non si può fare un passo indietro nemmeno in Medio Oriente senza che tutti lo interpretino più di quel che è. Potenze medie e presunte, dai sauditi agli egiziani, ora mercanteggiano apertamente con Washington per strappare le concessioni più disparate. L’impero illimitato non può essere limitato senza causare terremoti. Un piano emergerà ma a dettarlo saranno le circostanze.