L’economia è fatta di aspettative, e se si rompe il rapporto fiduciario tra risparmiatori e banche, beh allora non c’è assolutamente modo di rimettere le cose a posto, in tempi brevi e senza traumi. Ecco perché quando ieri si è avuta notizia delle ‘difficoltà’ (diciamo così) di Credit Suisse, è suonato un campanello d’allarme in tutta Europa, a cominciare dalla Banca centrale dell’Unione, a Francoforte. Nell’era della tecnocrazia, in cui computer e microchip consentono di muovere enormi masse monetarie a distanze siderali, nessuno si potrebbe meravigliare se un crac, dalla California, potesse essere trasferito, con un semplice clic, fino a Zurigo. Non è questo il caso di Credit Suisse, perché i suoi problemi hanno altre origini.
Nel momento in cui le azioni delle banche giapponesi crollano, gli indici di quelle europee agonizzano e le società di rating degradano istituti importanti, ci si deve per forza interrogare sul ruolo di un ‘capitalismo di cartone’, che non sostiene la crescita delle moderne democrazie industrializzate, ma che invece le depreda.
Con la crisi di Credit Suisse si appanna l’immagine stereotipata di una finanza Svizzera integerrima e capace di blindare i risparmi di chiunque. Ma il come, il più smaccato ‘aiuto di Stato’ come lo descriveva ieri il Financial Times: «La Banca centrale svizzera ha dichiarato che avrebbe offerto un sostegno di liquidità al Credit Suisse dopo che le azioni dell’istituto sono scese fino al 30% e hanno innestato una ampia svendita di azioni bancarie europee e statunitensi». I motivi delle difficoltà sono sempre i soliti: un rapporto sbilanciato, tra depositi e impieghi a lungo termine, che può far andare la banca in crisi di liquidità. Spesso, anziché affrontare una perdita iniziale e sanarla, si preferisce continuare a scommettere su una inversione della curva di mercato. Può andare bene, ma può anche andare male e portare alla catastrofe. Come è successo per SVB.
In fondo, anche se alla radice delle sofferenze finanziarie ci sono logiche diverse, la strategia per alleviarle è abbastanza simile, in tutti i casi. Si tratta di conservare il necessario “ratio” tra depositi e investimenti e di non tradire mai le aspettative fiduciarie dei risparmiatori. Nel caso di Credit Suisse, comunque, non si è trattato di una sorpresa. Già da tempo c’erano voci di difficoltà e la situazione è precipitata quando uno degli azionisti municipali, la Banca Nazionale saudita (che detiene poco meno del 10%) ha rifiutato un aumento di capitale. Un diniego che è stato visto dal mercato come una prova di sfiducia nelle possibilità dell’istituto svizzero di superare un periodo molto difficile. Credit Suisse, nell’ultimo trimestre del 2022, ha visto i suoi depositi diminuire del 40%, sollevando ulteriori perplessità nei restanti risparmiatori.
Va ribadito il fatto, comunque, e qui torniamo all’inizio della nostra riflessione, che il fallimento di Silicon Bank, anche se non direttamente legato allo stato patrimoniale di altre banche, possa fungere da detonatore per far esplodere altre crisi già ‘in progress’.
D’altro canto, se è vero che la Banca Nazionale Svizzera ha dichiarato che non c’è connessione diretta tra la SVB e le crescenti difficoltà di Credit Suisse, va anche osservato che situazioni di questo tipo possono essere influenzate da rapporti finanziari ‘mediati’.
Titoli derivati, hedge funds, swaps e altre diavolerie del genere non sono altro che giochi di scatole cinesi, fatti apposta per nascondere la verità dei fatti alle vere vittime della crisi: i risparmiatori.
In che mani di banchieri svizzeri siamo finiti? Credit Suisse affonda, ma è malattia locale