
Il Financial Times di ieri sembrava il bollettino di guerra dopo la battaglia di Gallipoli: inflazione ancora superiore al 40% (43,7 per l’esattezza); riserve in valuta pregiata, nominalmente 101 miliardi di dollari e praticamente meno di zero; bilancia delle partite correnti in profondo rosso (al 4,8% del Pil); disoccupazione al 10,2%; tassi di interesse incredibilmente bassi (8,8%), che incendiano i prezzi.
La ‘Erdoganomics’ ha fallito clamorosamente anche sul versante della crescita. Il ‘sultano’ aveva fatto accettare al Paese tassi di inflazione astronomici (fino all’85%), promettendo in cambio «uno sviluppo accelerato della ricchezza nazionale». Non si è verificato niente di tutto questo. Pur tenendo il costo del denaro artificiosamente basso, il Pil quest’anno aumenterà di un misero 2,6%. Di fatto, Erdogan ha devastato l’economia del Paese ed è rimasto con un pugno di mosche in mano. O, peggio, a restare nelle sabbie mobili della schizofrenia finanziaria, è stata la gran parte della popolazione. E, infatti, la metà gli ha votato contro. Solo che il suo cinismo politico, alla fine, lo ha salvato con la più classica e deprecabile delle strategie elettorali: distribuire pacchi-dono e prebende a spese dello Stato.
Così, come accadeva in certe classiche votazioni da strapaese, nell’Italia meridionale degli anni ’50, Erdogan si è ‘comprato’ (indirettamente, per carità) la benevolenza di molti elettori. «Il governo ha inondato il Paese di donazioni prima del voto – scrive il Financial Times – tra cui gas gratuito, elettricità scontata e 10 Giga di Internet ‘free’ per gli studenti. Anche gli aumenti dei salari minimi, e quelli degli stipendi dei dipendenti pubblici, possono aver avuto un peso determinante nell’esito del ballottaggio». Tanto per gradire, solo gli statali sono stati beneficiati di almeno 700 mila lire locali.
«Passata la festa, gabbatu lu santu» si dice nel nostro Mezzogiorno. Tutti gli ultimi due anni di politica economica turca, elaborata da Erdogan e dalla sua squadra, sono stati solo una lunghissima campagna elettorale in vista della rielezione dell’altro giorno. Una campagna dispendiosa, fatta pagare al Paese, con il non trascurabile dettaglio che l’importo finale è praticamente sconosciuto. Diventa difficile, infatti, sommare le spese vive, quelle indirette e soprattutto gli interessi che ancora devono maturare. Parliamo di debito pubblico. Attenzione, perché il futuro orientamento geopolitico della Turchia e il possibile rimodellamento delle sue relazioni internazionali, dipendono anche da questo.
Secondo uno studio di JPMorgan, le riserve nette della Banca centrale si sono volatilizzate. Ai conti fatti finora, occorre aggiungere l’indebitamento degli istituti di credito locali. Inoltre, le riserve auree non dovrebbero superare i 15 miliardi di dollari e i prestiti garantiti da alcuni Stati del Golfo Persico, dovrebbero ammontare alla stessa cifra. Troppo poco. In questo senso, i maggiori santuari dell’economia mondiale, non hanno dubbi: o Erdogan cambia politica economica, o la finanza internazionale cambierà Erdogan, portando dritto filato la Turchia a un clamoroso default. Stiamo parlando di un Paese di 85 milioni di abitanti, i quali non potrebbero assistere certo passivamente alla repentina dissoluzione dei loro stili di vita. Non è più un problema di scelte, ma una questione di sopravvivenza.
Moody’s ha già messo sotto osservazione la Turchia. «Un altro mandato per il Presidente Erdogan – sostiene la società di rating – implica probabilmente una continuazione delle attuali politiche macroeconomiche non ortodosse e insostenibili con un rischio accresciuto di un’inflazione molto elevata persistente e forti pressioni valutarie». Ma il vero disastro finanziario scatenato da Erdogan, con una sorta di effetto domino, è stato il progressivo indebolimento della lira, come affermano anche a Fitch, con la necessità di sostenerla artificialmente, bruciando valuta estera. Questo ha fatto tragicamente aumentare il rosso delle partite correnti, che quest’anno, secondo Barclay’s, potrebbe arrivare a 40 miliardi di dollari.
Insomma, se il Sultano non vuole affogare con tutta la Turchia ha bisogno che qualcuno gli presti i soldi. E di corsa. Così, il suo tronfio e autocratico nazionalismo ‘panturco’, andrà a farsi strabenedire, dato che dovrà imparare a fare la questua, girando col cappello in mano. E curvando la schiena.