Filippine in rivolta, non campo di battaglia Usa contro la Cina

Washington rafforza le sue posizioni nell’Indo-Pacifico, una tenaglia sulla Cina dal Giappone all’Australia, passando per Corea del Sud e Filippine. Washington possiede, caso unico al mondo, circa 700 installazioni militari in 80 diversi paesi nei cinque continenti. Solo in Corea del Sud 56 mila soldati Usa, oltre i 25 mila in Giappone.
82 milioni per sistemare le vecchie cinque basi nelle Filippine. Il 2 febbraio l’accordo per quattro nuove basi Usa. Tre nell’isola settentrionale di Luzon, a soli 400 km da Taiwan, la quarta sull’isola di Balabac, vicina all’atollo delle Spratly, al centro del contenzioso territoriale tra Cina e Filippine.
Ma ora il neo presidente Marcos, figlio di dittatore, rischia la rivolta popolare.

Da Duarte e Marcos, autoritarismi contrari

Il dietrofront di Manila. Durante il suo mandato, il discusso presidente Rodrigo Duterte aveva dato vita ad una svolta nelle relazioni internazionali, allontanandosi da Washington e stringendo maggiori relazioni con Pechino, rileva ‘Pagine Esteri’. Ma da quando è entrato in carica nel luglio del 2022 il nuovo presidente Ferdinando Marcos Jr (figlio dell’ex dittatore Ferdinando Marcos, deposto nel 1986) ha invertito la rotta ripristinando e sviluppando la tradizionale alleanza politica e militare con gli Stati Uniti.

Basi Usa ‘a proteggere i pescatori’

«Amici di tutti e nemici di nessuno». È questo il ‘mantra, che di fronte alla speciale Commissione del Senato filippino, ha ripetuto, per tutta la durata della sua audizione, il Ministro degli Esteri, Enrique Manalo. In discussione la generosa concessione di quattro grandi basi militari, ‘chiavi in mano’, all’America. Si vanno ad aggiungere ad altre cinque grosse installazioni, tutte realizzate sotto l’EDCA, l’Enhanced Defence Cooperation Agreement del 2014. Nelle basi, le forze armate di Washington, formalmente, hanno pochi vincoli e in sostanza, possono fare quello che vogliono. Tanto, nessuno le controlla. Al limite, potrebbero anche stoccare armi nucleari tattiche. Ergo, il trattato di mutuo soccorso bellico, fa diventare le Filippine, in pratica, una specie di Fort Apache dell’Indo-pacifico. Per difendersi o per attaccare chi?

Le quattro nuove basi sono tutte piazzate a ridosso del Mar delle Filippine occidentale. Vicine, molto vicine all’area geograficamente denominata ‘Stretto di Taiwan’.

Svolta militare Usa e Filippine prima linea

A questo punto, penso che abbiano capito tutti l’accelerata che Joe Biden ha voluto dare, all’amicizia filippino-americana. Lo sterminato arcipelago asiatico è stato trasformato in una fortezza a stelle e strisce, incaricata di arginare l’espansione cinese. Fare una guerra convenzionale, nel Mar cinese meridionale, sarebbe una cosa molto complicata per il Pentagono. Basi sparse a macchia d’olio, linee di rifornimento lunghissime, logistica problematica. Insomma, una piattaforma bellica come le Filippine sarebbe proprio indispensabile. Ma a Manila, sia nelle strade che in Parlamento, la gente reagisce e si pone mille domande. Tutti sanno che il vero convitato di pietra è la Cina, e che una malaugurata ‘miscalculation’, un errore, potrebbe scatenare una guerra per sbaglio. Anche per questo, iI Ministro Manalo è stato torchiato dall’opposizione, alla quale ha cercato di fornire le sue assicurazioni. Di facciata. Perché non ha convinto nessuno.

Specie quando ha detto che qualsiasi mossa militare degli Usa, in partenza dalle Filippine, avrebbe dovuto essere concordata e autorizzata dal governo del Presidente Ferdinando Marcos.

Paradosso famiglia Marcos

Il lato paradossale della vicenda è che la battaglia politica si è trasferita in famiglia, con la stessa sorella del capo dello Stato, la senatrice Imee Marcos, che ha attaccato duramente sia il fratello che il suo esecutivo, per un patto che viene giudicato contro gli interessi nazionali del Paese. Le motivazioni, poi esposte dal Ministro della Difesa, Carlito Galvez, sulle nuove basi, nel Mar Occidentale, hanno sollevato ulteriori polemiche. I militari americani (e le esercitazioni con quasi 20 mila uomini) «sarebbero state organizzate nelle Filippine per proteggere i pescatori». La senatrice Imee ha replicato, pungente, dicendo che «i pescatori non si sono mai accorti di essere in pericolo e che, evidentemente, i motivi per il dispiegamento di una forza così massiccia dovevano essere altri». Il richiamo di Galvez, comunque, si riferisse a un oggettivo potenziale elemento di tensione, dal momento che il Mar occidentale delle Filippine si sovrappone a un’area del Mar cinese meridionale.

Pescatori e Protezione civile

Tuttavia, il Ministro, per rispondere alla senatrice Marcos sull’entità delle forze in campo, ha anche aggiunto che lo spirito dell’accordo EDCA è, in buona parte, quello di operare come strumento per i servizi di Protezione civile. Terremoti, inondazioni, tsunami, frane ed eruzioni sono all’ordine del giorno, ha detto, e l’alleanza con gli americani consentirà di avere più mezzi per fare fronte alle emergenze e alle calamità naturali. Inutile dire che la giustificazione è sembrata alquanto ‘scivolosa’ e non ha convinto nessuno.

La Cina non gradisce e in molti tremano

La Cina ha già fatto la voce grossa, lanciando minacciose allusioni nei confronti dei 150 mila filippini che lavorano a Taiwan. È lo stesso problema degli indonesiani, che nell’isola contesa hanno 350 mila connazionali. Più in generale, l’escalation della tensione nei rapporti Usa-Cina si riverbera sul clima diplomatico di tutti i Paesi che si affacciano sull’Indo-Pacifico. I legami commerciali con Pechino sono molto stretti e, per la verità, molti di questi Stati vorrebbero solamente crescere e svilupparsi in santa pace. Senza essere coinvolti, quasi per forza, in un confronto geopolitico globale. A dare voce a timori di questo tipo, recentemente, è stato il Primo ministro di Singapore, Lee Hsien Loong, il quale ha sostenuto che «Taiwan è il punto di infiammabilità più pericoloso delle relazioni tra Pechino e Washington. La situazione è diventata preoccupante, anche se credo che entrambe le parti vogliano evitare un confronto armato diretto».

Singapore a nome di tanti e la ‘Cina unica’

Le parole di Lee sono preziose, perché vengono da un vecchio conoscitore dei problemi della regione, che rappresenta un Paese tradizionalmente mediatore. Per Lee, il diritto internazionale non può essere ‘interpretato a convenienza’, ma dev’essere applicato. E per la quasi totalità degli Stati del pianeta, vale il principio della ‘Cina unica’, cioè quella, continentale, di Pechino. Tecnicamente, Taiwan è una sorta di provincia autonoma separata. «L’isola – ha detto ancora Lee – è la più rossa delle linee rosse tracciate dalla Cina». Un casus belli insomma. Anche se la percezione del conflitto, ha concluso Lee, è molto diversa.

I cinesi pensano che gli americani vogliano bloccare la loro crescita economica, tecnologica e politica, per questioni di ‘egemonismo’. A Washington, invece, lo sviluppo accelerato del colosso asiatico, viene visto come una minaccia per gli interessi degli Stati Uniti. E in mezzo c’è la massa di tutti i Paesi ‘non allineati’, che cercano di non rimanere schiacciati tra questi due giganti.

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