Il viaggio di Blinken, che era già in programma a febbraio e che era stato disdetto per la storia del pallone-spia, adesso si deve fare. Anche perché la situazione potrebbe sfuggire di mano, in qualsiasi momento, per quella che gli esperti chiamano una ‘miscalculation’ militare. Oltre a questo, per Biden è già praticamente cominciata la lunghissima campagna elettorale, per le Presidenziali del 2024. Non può più sbagliare una mossa. Né può portare gli Stati Uniti a combattere guerre non dichiarate in ogni angolo del mondo, perché costano un occhio e, a lungo andare, stancano.
Nel caso della Cina, il Presidente americano è recentemente passato a toni più concilianti, salvo collisioni per quel via vai di navi militari Usa nello stretto di Tawan. Al G7 di Hiroshima, a maggio, Biden ha affermato di aspettarsi ‘un imminente disgelo nelle relazioni con Pechino’. Avrà avuto notizie in questo senso dai suoi due emissari di altissimo rango, spediti a incontrare i funzionari cinesi per cercare di ricucire rapporti diplomatici troppo sfilacciati.
Il primo a sondare il terreno è stato Jake Sullivan, il Consigliere per la Sicurezza nazionale, che a Vienna ha incontrato, per ben otto ore, il vero capo della diplomazia cinese, l’ex Ministro degli Esteri Wang Yi. I due hanno concordato di proseguire nel solco del ‘gentlemen’s agreement’ di Bali, quando, al G20, Biden e Xi Jinping decisero, al di là dei verbali diplomatici ufficiali, di creare una piattaforma comune di dialogo riservata. Un’evoluzione dei rapporti confermata, adesso, dalla realtà dei fatti, perché il vero preparatore del viaggio di Blinken a Pechino è stato il capo della Cia, Bill Burns.
Il Direttore dell’Agenzia di Langley si è recato in Cina il mese scorso per parlare di cose di cui, evidentemente, la diplomazia ufficiale fatica a discutere. Per molti motivi. Burns ha tutta la fiducia di Biden (anche personale) e, soprattutto, non è vincolato da protocolli e regolamenti burocratici, che gli impongono di raccontare ai media tutto ciò che tratta. Problemi affrontati molti e, probabilmente, alcuni anche inaspettati. Di sicuro, nell’Amministrazione Usa non c’è una linea strategica omogenea verso la Cina. Esiste un partito della ‘realpolitik’ (in cui c’entra pure Biden) contrario alla ‘guerra ideologica’ a tutti i costi, quella etichettata come ‘democrazia contro autocrazia’.
Ma la vera materia del contendere è un’altra. E Taiwan è solo una scusa eccellente, ma insufficiente a giustificare una guerra mondiale.
Il problema principale è il modello produttivo e la filosofia politica che lo esprime. I tassi di crescita del Pil cinese finora sono stati strabilianti ed eclissano costantemente quelli occidentali. Il capitalismo di Stato ancora più rigido di Xi Jinping non fa prigionieri e punta alla leadership mondiale. Questo gli Stati Uniti non lo permetteranno mai, con le buone o con le cattive e imporranno ai loro alleati politiche di ‘disaccoppiamento’, per affrancarsi dalla dipendenza di materie prime e semilavorati cinesi. E, soprattutto, per non esportare tecnologia ‘sensibile’.
L’Europa ha reagito a queste esortazioni dividendosi in blocchi, che assumono atteggiamenti variegati rispetto alle relazioni commerciali e finanziarie da impostare con Pechino. Il Presidente francese Macron, recentemente, ha ribadito l’interesse dell’Europa a mantenere legami trasparenti e produttivi con la Cina. Non è questa l’opinione della Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, che sposa quasi acriticamente il punto di vista americano.
L’unica concessione che Washington ha fatto ai suoi alleati di Bruxelles è stata lessicale. Quando parlate di Cina, non dite più ‘decoupling’ (disaccoppiamento), ma chiamatelo ‘derisking’ (abbassamento del rischio). Così la gente sarà più contenta e noi continueremo a fare quello che facevamo prima.
L’Italia? Notizia non pervenuta.
‘Il mondo deve restare americano e gli europei sono avvertiti: con noi o contro di noi’