
Mohammed bin Salman stava utilizzando il possibile riconoscimento di Israele per rinegoziare la relazione speciale con gli Stati Uniti per ottenere dagli americani armamenti sofisticati e garanzie di sicurezza in caso di un sempre temuto attacco iraniano, e infine, sostegno al programma nucleare per scopi civili con sospetto di modello iraniano. Il congelamento della normalizzazione con Israele rallenta, se addirittura non affonda tutti questi dossier, lasciando i sauditi in una grave fase di incertezza politica, e quindi più vulnerabili.
Ma il conflitto Hamas-Israele è un enorme problema per gli Stati Uniti che, distratti da elezioni permanenti come le guerre, e concentrati su altri fronti, ora sono nei guai. Soprattutto l’amministrazione Biden. Ma sul fronte Usa, leggeremo domani Piero Orteca. Limitandoci al fronte arabo, per gli Usa resta strategico il fianco est della Nato (in cui vorrebbero coinvolgere l’Europa), e sull’Indo-Pacifico, dove sono essenziali degli alleati regionali, a partire da Arabia Saudita, Emirati Arabi e Israele. Per questo la Casa Bianca ha investito politicamente molto negli Accordi di Abramo ereditati dalla presidenza Trump, sperando di stabilizzare la regione.
«E utilizzare le trattative con Riad sul riconoscimento di Israele per ostacolare, o almeno limitare, l’avvicinamento del Regno saudita alla Cina», la malizia analitica di Eleonora Ardemagni di Avvenire.
Equilibrismi pericolosi. Mohammed bin Salman, che ha subito invocato la de-escalation tra le parti, non ha molte probabilità di imporsi come mediatore. I palestinesi hanno capito da tempo ormai che per Riad non sono più tra la priorità. E mentre la violenza cresce, l’Arabia Saudita si trova scomodamente a metà del guado politico, l’analisi impietosa: «interlocutore, di fatto, degli israeliani -dunque oggetto degli strali di Hamas e di Hezbollah che gridano al tradimento della causa palestinese- ma ancora senza un accordo ufficiale con le autorità israeliane».
Di fronte a questo scenario che noi abbiamo sicuramente ridotto semplificando, Mohammed bin Salman ha due scelte possibili e sono entrambe difficili. Ritornare sui propri passi e distanziarsi da Israele, mostrando però così una leadership indebolita, sul piano regionale e interno. Oppure perseguire gli obiettivi stabiliti continuando e, nel lungo periodo, completando la normalizzazione con gli israeliani, nonostante i costi d’impopolarità che ciò comporterebbe, specie dopo l’assedio di Gaza.
L’attacco subìto dallo Stato ebraico rischia di scompaginare tutti i processi in corso in Medio Oriente. «Come cambia il processo di normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele mediato dagli Stati Uniti dopo l’offensiva di Hamas?». Gerusalemme e Riyad sembravano vicine all’accordo poco prima che iniziassero le operazioni della resistenza palestinese partite dalla Striscia di Gaza. Nelle analisi precedenti al 7 ottobre ci si interrogava sul ruolo dei palestinesi, Hamas e l’Autorità nazionale palestinese. Mentre nel negoziato sono esclusi i palestinesi estranei al sistema di potere israelo-palestinese della gerontocrazia Anp. E anche gli abitanti della Striscia di Gaza, dominata da Hamas, sembravano destinati a rimanere fuori dai negoziati mediati dalla Casa Bianca.
Nei giorni scorsi un emissario saudita si era recato in Cisgiordania per parlare con i rappresentanti dell’Autorità palestinese con l’intenzione di capire quanto costasse, in termini finanziari e politici, il loro sostegno al processo di normalizzazione tra Riyad e Gerusalemme, scrive su Limes Lorenzo Trombetta. I sauditi trattavano direttamente con Hamas? Altro dubbio: Hamas è da anni tenuto in vita a Gaza non solo dall’Egitto ma anche dal Qatar, entrambi alleati degli Stati Uniti. Cosa certa ed evidente che i diritti dei palestinesi non erano e non sono fra le priorità degli Stati Uniti o dell’Arabia Saudita, né tantomeno di Israele.
Evidente che i diritti dei palestinesi non sono fra le priorità degli Stati Uniti o dell’Arabia Saudita, né tantomeno di Israele. Di fatto la questione palestinese era scomparsa dall’agenda politica e diplomatica non solo internazionale ma anche mediorientale, ricordando tutti –ripetiamo-, che il movimento islamico è da anni tenuto in vita a Gaza non solo dall’Egitto ma anche dal Qatar, entrambi alleati degli Stati Uniti. Ora non è da escludere che l’Iran possa attivare il suo alleato strategico Hezbollah in Libano e nel Golan siriano. Uno scenario potenzialmente devastante, dalla Terrasanta sino al Golfo Persico e al petrolio del mondo.
Con la probabile chiamata in campo di numerosi altri attori dentro e fuori il Medio Oriente. A partire dall’Iran, ma anche gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar, la Giordania, l’Iraq, la Siria, il Libano, l’Egitto.