
Le brutte espressioni di politica da andare subito a tradurre. Lo aveva anticipato il vice Primo ministro russo, Alexei Overchuk, parlando al ‘Forum per l’Asia’ di Hainan, quando si è riferito agli sforzi che Mosca e Pechino stanno facendo «per migliorare la loro connettività». Un’indicazione che può sembrare generica, ma che ha invece un significato preciso: la possibile fusione di molti progetti della «Belt and Road» cinese (la Via della Seta), con quelli della «Unione Economica Euroasiatica» (UEE) russa.
Uno strabiliante ribaltamento di posizioni da parte di Putin, che fino a una decina d’anni fa vedeva la Via della seta come fumo agli occhi. La Cina era allora un ‘competitor’ assoluto, specie per quanto riguarda il controllo dell’Asia centrale. Poi è arrivata la guerra con l’Ucraina (e, per procura, con l’Occidente) ed è cambiato tutto. Le sanzioni economiche hanno fatto il resto, gettando definitivamente Zar Vladimir tra le braccia di Xi. Dunque, l’asse Mosca-Pechino si è progressivamente stretto intorno a chiari interessi strategici comuni.
Le divergenze restano. Ma è proprio l’esigenza di ‘fare blocco’ (la potremmo definire ‘politica di scala’), per fronteggiare l’Occidente, che spinge i due partner a smussare gli spigoli e a trovare l’accordo. Per ottenere tutto questo, la nuova Via della seta russo-cinese deve, prima di tutto, trovare un convinto sostegno nei Paesi dell’Asia centrale. Sono il ponte che collega due universi economici, pronti a sfruttare tutti i vantaggi che potrebbero derivare proprio dalla migliore ‘connettività’ delle catene di approvvigionamento. Materie prime, energia, metalli, terre rare, microchip, semilavorati e tutto quello che serve per realizzare un prodotto finito.
La valenza economica del discorso, non nasconde però le sue notevoli ricadute sugli equilibri politici internazionali. Dunque, l’Unione Euroasiatica di Putin, lanciata nel 2014, oltre alla Russia comprende diversi Stati che in passato erano Repubbliche sovietiche: Armenia, Kirghizistan, Bielorussia e Kazakistan. Soprattutto quest’ultimo immenso Paese, rappresenta un’area di interesse strategico eccezionale, di cui la Russia fatica ad avere una sorta di ‘patronage’. Secondo diversi analisti, tutte le Repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale sarebbero affette da una «sindrome ucraina».
Ci sarebbe, cioè, il timore di subire, da parte della Russia, il trattamento riservato a Kiev. La Cina, invece, viene vista come elemento di moderazione, che può fare da contrappeso alle velleità di Mosca. È un altro motivo che ha spinto il Cremlino a cercare la collaborazione di Xi. L’anno scorso, al vertice di Xian, il leader cinese è riuscito a riunire anche Paesi della regione notoriamente ‘imprevedibili’. Xi ha invitato anche Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan e si è impegnato a investire nell’area 3,7 miliardi di dollari, per accelerare lo sviluppo economico. Ed è proprio la grande disponibilità di capitali, da destinare a investimenti infrastrutturali, che ha convinto Putin a cementare la collaborazione con la Cina in Asia centrale.
L’integrazione dei programmi tra ‘Belt and Roa’ e UEE, darà ritorni politici notevoli ai due partner. E creerà le condizioni per stabilizzare una sfera d’influenza che, negli ultimi anni, si era decisamente ridotta. Un esempio probante di quanto scriviamo è costituito dalla ferrovia Cina-Kirghizistan-Uzbekistan. Un’idea faraonica (523 km. di linea), proposta trent’anni fa per arrivare in Europa by-passando la Russia. Ebbene, i lavori sono rimasti praticamente bloccati fino all’anno scorso, anche se nessuna autorità russa aveva diritto a intervenire.
Magicamente, non appena i rapporti tra Pechino e Mosca si sono stretti, a causa della guerra in Ucraina e delle sanzioni, la burocrazia dei Paesi interessati ha ripreso a funzionare. E ora tutte le autorizzazioni sono state date e i lavori sono cominciati. I soldi sono di Xi Jinping, ma l’ultimo timbro sotto il progetto l’ha messo Putin.