Le ormai inarrestabili manifestazioni popolari di protesta vanno ormai ben oltre la diffusa insoddisfazione economico-sociale, già esplosa nel 2009 e nelle più modeste proteste del 2017, quando l’allora presidente Hassan Rohani prometteva l’esaurirsi delle sanzioni economiche grazie all’accordo sul nucleare. Non fu per i due soliti ‘opposti estremismi’. «La tetragona resistenza delle amministrazioni e degli apparati americani, con in testa il Tesoro, ma anche per l’opposizione interna di vari settori degli apparati che vedevano negativamente ogni apertura (concessione) verso l’Occidente».
Ma in quel 2017, forse per la prima volta, i manifestanti ripudiarono il regime clericale iraniano e il suo sistema ideologico di governo. Rompendo gli antichi equilibri tra le tradizionali tre componenti del potere reale, spiega Paolo Raffone: turbanti (varie sfumature di religiosi sciiti), corona (declinazioni del potere centrale di governo), spade (esercito e apparati di sicurezza). «Nella lunga storia iraniana, le combinazioni di co-gestione dei popoli dell’Iran (65% etnicamente persiani) hanno modulato, secondo i tempi, accenti a favore delle diverse classi sociali, quasi sempre favorendo quelle aristocratiche e proprietarie (principi con turbanti e alto clero), talvolta dei borghesi e commercianti (professionisti e grandi bazzarin), mentre un capillare sistema di welfare era rivolto alle classi popolari, ai lavoratori e alle varie minoranze».
La repressione come costante storica di tutte le forme di governo, ma anche la voglia popolare di cambiamento. Il percorso che propone Limes è complesso a storicamente elaborato. Dal ‘moderatamente progressista’ di Mohammad Mosaddegh (1953) sino alla rivoluzione che portò alla Repubblica Islamica (1977-1979). Una rivoluzione rubata? Khomeini, in pieno bipolarismo da guerra fredda, inventò l’“homo islamicus” di de-colonizzazione, e tra ‘sciismo rosso e nero’, scelse -fu aiutato a scegliere-, il profondo nero.
Dopo un milione di adolescenti morti nella guerra contro l’Iraq (1980-1988) e le esecuzioni extragiudiziali di decine di migliaia di oppositori (prevalentemente marxisti e islamisti moderati “mujtahid”), fu lo spirito patriottico islamico costellato di martiri a sorreggere la rivoluzione fino alla morte del suo fondatore. «Buona parte della popolazione e dei poteri istituzionali si erano convinti (o rassegnati) del primato della rivoluzione khomeinista e della sua ideologia, che passa sopra tutto e tutti: censo, appartenenza etnica, legami familiari».
Le voglie di cambiamento riesplose nel 2017, nel 2021 e nuovamente dal settembre 2022. E il think tank Carnegie nel 2017 così analizzava: «L’Iran è entrato in una finestra di opportunità demografica favorevole alla crescita, con i lavoratori di prima età – quelli tassabili – più numerosi dei bambini e degli anziani a carico. Questo periodo modellerà il futuro economico e politico dell’Iran, con importanti implicazioni per la politica americana verso l’Iran». Il problema è che gli americani a spinta saudita, nei confronti dell’Iran le sbagliano quasi tutte. L’età media dell’Iran oggi è 32 anni, tra le più alte del Medio Oriente, ma è la sua struttura a preoccupare il regime. Oggi, il 34.7% degli 85 milioni di iraniani ha meno di 24 anni, e di Khomeini hanno visto solo l’immagine e ne hanno subito le interpretazioni politiche. Mentre l’età dell’alto clero è tra gli 80 e i 90 anni, e sempre più infermi.
La strategia trumpiana della ‘massima pressione’ continuata da Biden, e all’indebolimento non casuale dell’Unione Europea aggravato con la guerra in Ucraina, oltre alla catastrofica gestione Pandemia hanno creato le premesse alle proteste attuali. «Il governo iraniano non ha potuto affrontare le sfide della crisi sanitaria che facendo appello a norme ideologiche e narrazioni statali radicate». E quando non sai cosa fare, reprimi. Galera per diversi “difensori della salute”. «E tra marzo 2021 e inizio 2022, si inventano la medicina islamico-iraniana”, misure di prevenzione ispirate alla “medicina tradizionale iraniana”».
Le donne iraniane, che furono cruciali nella rivoluzione del 1977-1979, hanno vissuto sulla loro pelle la pandemia e gli errori del governo. Una situazione insostenibile per le donne, con velo o senza velo, che si sono sentite nuovamente tradite dai mullah e dagli ayatollah. Una seconda ondata rivoluzionaria, dopo il Settantanove, guidata dalle donne, si chiede Paolo Raffone.
Nel 2021, il movimento “No2IslamicRepublic”, è riuscito a coagulare attorno a note figure pubbliche (attivisti e artisti) una forte partecipazione popolare che chiedeva senza la fine del regime clericale, perché corrotto e irriformabile. La repressione, gli arresti e le violenze del regime non hanno fermato i manifestanti che si sono moltiplicati in tutto il paese.
Dal 16 settembre 2022, giorno in cui la polizia religiosa ha arrestato e ucciso una ragazza di 22 anni – Mahsa Amini – perché non indossava correttamente l’hijab, iraniani di tutte le età, etnie e generi si sono uniti alle manifestazioni. Ma sono soprattutto le generazioni più giovani che sono scese in piazza. Alcuni lavoratori dell’industria petrolifera hanno dichiarato sciopero.
Il ‘sistema iraniano’. ‘Turbanti’, potere religioso ai vertici dello Stato dal 1979, di molti apparati di sicurezza e del clientelare sistema di welfare delle moschee. Dall’altro i pasdaran, le Guardie della rivoluzione che oltre ad aver proiettato la forza militare iraniana in Iraq, Siria, Libano, Yemen, gestiscono in proprio grossi e settori dell’economia e offrono un sistema di welfare concorrente con quello religioso. Le due braccia del potere, concordi nella repressione, le uccisioni, gli arresti, agitando sempre gli stessi due nemici esterni (Israele e Usa) e interni (minoranze etniche del Kurdistan e del Belucistan). Vecchi teoremi patriottici.
«La Repubblica Islamica potrebbe sopravvivere a sé stessa perché il 48% della popolazione (25-54 anni), benché insoddisfatta, non si è ancora apertamente schierata con i manifestanti». Il regime teocratico iraniano appare delegittimato, ma la Repubblica Islamica potrebbe sopravvivere con una nuova forma di governo, decisamente laica e forse guidata da tecnocrati militari che anagraficamente desiderano un paese più secolare e moderno. Non avendo elementi (ma molti timori) su cosa tutto questo potrebbe provocare anche nelle regioni confinanti del Medio Oriente (Golfo, Iraq, Siria, Libano), dell’Asia centrale (Afghanistan, Pakistan, Turkmenistan), del Caucaso (Caspio, Azerbaijan e Turchia).
Il politologo svedese d’origine iraniana Trita Parsi sostiene che il regime dell’ottantatreenne Khamenei sta cercando una “via d’uscita gestibile”, lanciando appelli segreti a due “famiglie fondative” della Repubblica Islamica: gli islamisti moderati dei clan Rafsanjani e Khomeini. Emarginare gli islamisti radicali e calmare le proteste diviene essenziale. Ma quasi impossibile.
Da una autocrazia bigotta e fuori dal tempo ad una più moderna, razionale ma anche feroce? Il collasso della teocrazia preferita da radicali americani e israeliani porterebbe a una violentissima disgregazione dell’Iran con pericolosissime instabilità regionali. Più che dall’Iran, questo scenario dipende quasi esclusivamente dagli Stati Uniti e da Israele che a loro volta stanno vivendo una confusa transizione politica e sociale. «Purtroppo, diversamente dal 2013-2015 l’Unione Europea è totalmente sottomessa alle scelte israeliane e americane, come dimostra la gestione della crisi in Ucraina».
La presa di potere militare dei guardiani della rivoluzione, i pasdaran. L’Iran resterebbe “Repubblica Islamica”, ma di fatto diventerebbe una dittatura militare. Più segnali in questa direzione. «Ma siamo solo all’inizio di un processo di transizione di potere all’interno. È evidente che le capitali del resto del mondo farebbero bene a pensare solidamente sin da adesso alle conseguenze che la crisi iraniana, qualsiasi sarà la sua evoluzione, necessariamente avrà nei già complicati equilibri mondiali».