Messico, la faccia triste dell’America prima di Trump e di Biden

Altra musica, altri popoli a spingere per altra terra e diverso futuro, leggende di pionieri e di chicanos costruite al cinema. E altre guerre prima dei muri della brutta attualità. Tra Messico e Stati Uniti per tutto il XIX secolo è stato un confronto scontro sui confini, nato già ai tempi della cessione della Lousiana da parte francese. Di fatto ad ovest i nuovi confini americani erano indefiniti e in diverse occasioni vi furono scontri o piccole guerre. La scomparsa dell’impero spagnolo, l’indipendenza del Messico e del Texas, l’effimero impero proclamato da Massimiliano d’Austria e la rivoluzione messicana di Emiliano Zapata e Pancho Villa. I miti sui confini e la loro storia, oggi ancora presenti nella cultura di massa, complicano ulteriormente la situazione.

Pancho Villa, eroe messicano

Alamo, Davy Crockett e i falsi buoni di John Wayne

Il Messico ottenne la propria indipendenza dalla Spagna nel 1821 dopo una lunga guerra che – secondo stime contemporanee – provocò la morte di quasi un decimo della popolazione e una crisi economica e sociale devastante. Dal punto territoriale il nuovo stato era tuttavia molto vasto: si estendeva dall’istmo di Panama sino alle pianure dell’Oregon e comprendeva tutta l’attuale California e una parte del Texas. Soprattutto si trattava di un vicino temibile per i giovanissimi Stati Uniti che nello stesso periodo stavano iniziando l’espansione ad ovest, nonostante esistesse un accordo generale sulle frontiere per mantenere lo status quo (accordo Adams-Onis del 1819).
Nelle intenzioni originarie dei costituenti messicani era prevista una monarchia costituzionale, ma il primo ‘imperatore’ prescelto, ovvero il successore del viceré della Nuova Spagna, fu deposto due anni dopo dal generale Antonio López de Santa Anna che proclamò la repubblica designando alla presidenza Guadalupe Victoria. Santa Anna poi si ribellò anche a Victoria e divenne in pochi anni il padrone assoluto del Messico, ma nel 1835 si trovò ad affrontare la secessione del Texas, ovvero il distacco della parte orientale dell’antico impero spagnolo.
La vicenda più nota fu l’assedio del fortilizio di Alamo (1836), nei pressi della città di San Antonio, in cui si erano asserragliati alcuni ribelli texani e altri volontari provenienti dagli stati continentali. La guerra tra Messico e Stati Uniti ebbe in seguito un altro capitolo tra il 1846 e il 1838: i messicani sconfitti dovettero rinunciare al Texas, alla California, al Nevada, all’Utha, al Nuovo Messico, al Colorado e al Wyoming.

L’ultima presenza europea

Nel 1863 sorse il cosiddetto ‘II° Impero messicano’. Poiché il paese continuava a versare in gravi difficoltà e non riusciva a rimborsare i prestiti contratti all’estero, intervenne un accordo tra le potenze del tempo – al primo posto la Francia di Napoleone III – che sancì l’ascesa al trono di un sovrano europeo e cattolico. Fu scelto Massimiliano d’Asburgo, fratello dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe, che rimase sul trono solo fino al 1867: abbandonato nel frattempo da Napoleone III che ritirò il contingente francese e sconfitto dalle forze repubblicane guidate da Benito Juárez, Massimiliano fu infine fucilato nei pressi di Queretaro.
Nel frattempo, sia per la debolezza militare messicana che si trovava a fronteggiare l’insurrezione repubblicana e a garantire la frontiera, sia per la guerra civile che imperversava in America tra unionisti e confederati, il confine divenne teatro di frequenti scontri e scaramucce di ogni sorta. Formalmente l’impero aveva riconosciuto la Confederazione sudista, ma dal Nuovo Messico arrivavano aiuti agli insorti repubblicani e nessuna autorità poteva garantire il controllo del territorio.
Solo a partire dal 1866, quando cioè gli Stati Uniti tornarono definitivamente in possesso degli stati del sud, la situazione si normalizzò, ma restarono parecchi risentimenti perché i due vicini continuarono a guardarsi con sospetto ancora a lungo in un clima di perenne tensione, aggravato dai frequenti sconfinamenti di bande di razziatori o indiani.

Pancho Villa e il tenente Patton

Il 9 marzo 1916 José Doroteo Arango Arámbula, meglio conosciuto come Pancho Villa, penetrò con mezzo migliaio di guerriglieri messicani nel territorio degli Stati Uniti. Fu una puntata veloce, ma distruttiva: la città di Columbus, nello stato americano del Nuovo Messico, fu messa a ferro e fuoco, nonostante la presenza nelle vicinanze di una guarnigione dell’esercito degli Stati Uniti. La reazione americana fu massiccia e immediata: il presidente Woodrow Wilson inviò un forte contingente che sconfinò in Messico allo scopo di catturare il rivoluzionario messicano.
Seguirono numerosi scontri che si protrassero fino al gennaio 1917 ed altrettanti momenti di tensione con il legittimo governo messicano che, sebbene impegnato esso stesso nel reprimere le forze rivoluzionarie, non sempre tollerava però le invadenti operazioni americane. Il generale Pershing, pur avendo a disposizione truppe ben equipaggiate e mezzi moderni come una squadriglia aerea e un dirigibile, non riuscì però a catturare Villa.
Fu nel corso di questa spedizione che apparve per la prima volta nelle cronache militari un nome che avrebbe avuto in seguito una certa risonanza: George Smith Patton, giovane tenente di cavalleria, attaccò a bordo di un’automobile armata di mitragliatrice un’hacienda nella quale si trovava un gruppo di seguaci di Villa. Nella mitologia del generale americano divenne il primo attacco meccanizzato nella storia delle guerre, ma in realtà le prime autoblindo erano già state impiegate nella vecchia Europa dove si combatteva da due anni una guerra vera.

 

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