«Stiamo indagando con la massima urgenza», aveva dichiarato Karim Khan, il procuratore capo della Corte Penale Internazionale, avvocato britannico di genitori pakistani, quando a fine ottobre aveva visitato il valico di Rafah. Sei mesi di indagini dopo, il tribunale avrebbe pronta una serie di mandati di cattura. Prima i vertici sopravvissuti di Hamas, per l’attacco terroristico del 7 ottobre, ma anche -questa la bomba politica-, i vertici dello Stato di Israele per la risposta militare nella Striscia di Gaza, oltre le decimazioni vendicative di infausta memoria.
Su Israele, la smodata reazione su Gaza e aver ostacolato l’arrivo di aiuti via terra. Era stato lo stesso Karim Khan ad avvertire: «Scuole, ospedali, chiese e moschee, abitazioni sono protette dal diritto e non devono essere bombardate». Più chiaro ancora: «Ho chiarito cosa dice la legge nei termini del principio di distinzione, precauzione e proporzionalità». Finora Khan era stato criticato per non essersi attivato con rapidità a fronte di una situazione drammatica. Un evidente cambiamento di rotta a salvaguardare la stessa sopravvivenza della Cpi in termini di legittimità dell’istituzione.
In serata Washington ha provato a metterci una pezza. «Gli Stati Uniti non supportano l’indagine della Corte penale internazionale contro Israele», ha detto la portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre. «Non crediamo abbia la giurisdizione». Tentativi di facciata, mentre le forzature reali avvengono di nascosto. Il Wall Street Journal -potente giornale dell’establishment politico-finanziario americano- già il 26 aprile pubblicava un editoriale non firmato in cui inviata Biden e il premier britannico Sunak a intervenire sulla Corte. ‘Pressioni illecite e fuoco di sbarramento’ come segnala Alessandro De Pascale sul Manifesto.
L’azione giudiziaria -va precisato-, non ha nulla a che vedere con quella promossa davanti alla Corte internazionale di giustizia dal Sudafrica, che accusa Israele di «genocidio contro la popolazione palestinese di Gaza».
Contemporaneamente e in plateale contraddizione politica, Il Dipartimento di Stato americano ha stabilito che cinque unità militari israeliane hanno commesso «violazioni dei diritti umani» bel prima del 7 ottobre, nella Cisgiordania occupata. La notizia mentre Washington sta ancora decidendo se limitare l’assistenza militare a una delle unità, il battaglione Netzah Yehuda composto da soldati religiosi ultraortodossi, accusato in più occasioni di violenze a danni dei palestinesi. Un portavoce del Dipartimento di stato ha precisato che le altre quattro unità sotto osservazione starebbero ponendo rimedio al comportamento dei loro soldati.
Nell’esecutivo israeliano, sono ore di caos e di veti incrociati, avverte Michele Giorgio da Gerusalemme. Lo scontro più acceso è tra chi, come il leader del partito dell’Unione nazionale Benny Gantz, chiede l’intesa per il ritorno degli ostaggi, e l’estrema destra, che minaccia di far cadere il governo se sarà accolta la proposta egiziana. «Accettare quell’accordo sarebbe una resa umiliante», ha commentato il ministro ultranazionalista Smotrich.