Una conseguenza del riscaldamento delle acque oceaniche è l’aumento dell’intensità delle tempeste, soprattutto degli uragani. «Succede perché gli uragani funzionano come macchine termiche», riferisce sul Post Marco Reale, ricercatore dell’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale. «Tanto più calore c’è nell’oceano, tanta più energia è a disposizione per essere convertita in lavoro, quindi tanto più i fenomeni diventano intensi». In altre parole, l’oceano e l’atmosfera non sono sistemi indipendenti, ma «un sistema accoppiato, e in quanto tale interagiscono tra loro».
Nel Mediterraneo non si formano uragani, ma la maggiore temperatura dell’acqua produce qualcosa di simile. «Soprattutto nel Tirreno e nello Ionio favorisce quei fenomeni molto brevi e intensi, come i cosiddetti medicane», i cosiddetti ‘cicloni tropicali mediterranei’ che sono diventati più frequenti con il cambiamento climatico: «Piove per 24 ore in una zona più o meno costiera e si rovescia mezzo metro d’acqua in un giorno. È una quantità d’acqua improponibile per qualunque tipo di terreno». Un esempio recente è stata l’alluvione nelle Marche di metà settembre.
Riscaldamento del mare anche in profondità. Nel corso degli ultimi 20 anni è stato rilevato che l’acqua del mar Ligure e del mar Tirreno si è scaldata anche nella fascia compresa tra i 300 e gli 800 metri di profondità: + mezzo grado (14°) a 800 metri. Inimmaginabile la quantità di energia che occorre per riscaldare in quel modo la ‘striscia di mare’ che va da Genova a Palermo tra i 300 e gli 800 metri di profondità ed è larga 20 chilometri. «Un numero spaventoso, una quantità gigantesca». «A spanne –azzardano gli scienziati-, si tratta di una quantità pari a molte volte tutta l’energia che usiamo in un anno in Italia».
Conseguenze sugli ecosistemi marini, cioè sulle piante e sugli animali che vivono nell’acqua e sui rapporti tra loro. «Ciascun organismo ha un suo intervallo di temperature ottimali per i propri cicli di vita, e tanto più la temperatura aumenta, tanto più per determinati organismi non va bene». Di conseguenza le specie che possono farlo si spostano, «sia in direzione orizzontale, verso nord nel caso del Mediterraneo, sia in profondità nella colonna d’acqua».
Il Mediterraneo sta diventando più salato, soprattutto vicino alla superficie, perché facendo più caldo è cresciuta l’evaporazione. E sta diventando più acido, soprattutto nella sua parte più orientale, che beneficia meno degli scambi d’acqua con l’oceano Atlantico: la maggiore concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera dovuta alle emissioni umane causa infatti un maggiore assorbimento dello stesso gas da parte delle acque marine (avviene sia per un processo fisico, dovuto alla solubilità dei gas in acqua, sia per la biologia del fitoplancton, che usa la CO2 come fanno le piante terrestri per fare la fotosintesi).
Ogni specie ha anche intervalli di salinità e di acidità in cui vive bene, o riesce a riprodursi, e le variazioni i determinano migrazioni o, nei casi peggiori, morie. Secondo uno studio pubblicato a luglio, le ondate di calore marine che hanno colpito il Mediterraneo tra il 2015 e il 2019 hanno causato morti di massa di decine di specie di organismi viventi nei primi 45 metri di profondità, cioè nelle zone costiere: queste morie riguardano soprattutto coralli e alghe, ma dato che ogni specie di un ecosistema svolge un ruolo per la vita delle altre, a lungo andare potrebbero esserci ripercussioni anche su altri organismi, compresi i pesci con un valore alimentare ed economico per gli umani.
È difficile fare previsioni più precise sul lungo periodo, perché le variabili sono tantissime, i mari sono sistemi complessi e molto dipende anche dalle misure che saranno intraprese a livello globale nei prossimi anni per ridurre le emissioni di gas serra.
Cosa potrà accedere agli ecosistemi del Mediterraneo a metà e alla fine di questo secolo se dovessero verificarsi due diversi scenari di emissioni di gas serra, quelli proposti (e sempre tradititi alla varie ‘Cop’ Onu. .
Peggior scenario possibile. Quello che suppone che la specie umana continui a produrre emissioni di gas serra come ha fatto finora, facendone aumentare sempre di più la concentrazione in atmosfera e causando un aumento delle temperature medie globali di 4.3 °C rispetto ai livelli pre-industriali entro il 2100.
Scenario medio. A un certo punto le emissioni vengono arginate ma non abbastanza in fretta da evitare il superamento dei 2 °C in più rispetto ai livelli pre-industriali.
L’effetto sarà maggiore nello scenario peggiore e in entrambi i casi nell’est del Mediterraneo.
L’unica nota positiva è che la simulazione prevede che verso la fine del secolo i valori biogeochimici tornino simili a quelli d’inizio secolo, lascondoci immaginare (o illudere) che il Mediterraneo abbia una specie capacità di resistenza a certi cambiamenti e che una riduzione delle emissioni avrebbe un impatto effettivo sul sistema. Un flebile messaggio di speranza.