Scaduto l’ultimatum lanciato dopo il golpe del 26 luglio scorso che ha deposto il presidente Mohamed Bazoum, la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale si era detta pronta a intervenire militarmente ma in attesa di una comunicazione ufficiale, secondo fonti militari riferite dal Wall Street Journal, per ora l’organizzazione degli stati africani non avrebbe ancora «la forza necessaria per partecipare a una simile operazione militare».
La questione è evidente: con una base Usa di droni nel Nord e 1.100 soldati americani sul terreno (i francesi sono 1500, gli italiani 340 circa) la Casa Bianca, nonostante la solidarietà espressa a Bazoum, teme che un intervento militare mal riuscito possa risolversi in un disastro. E in Africa americani ed europei di disastri ne hanno già combinati a sufficienza. Sono stati i loro errori che hanno lasciato spazio a russi, cinesi, turchi: queste potenze fanno esattamente il lavoro che facevamo noi un tempo, rafforzano chi è al potere e sfruttano le risorse minerarie e umane.
Il paradosso è che molte delle élite militari oggi in sella le abbiamo armate e addestrate nelle scuole militari di Francia e Stati uniti. Come sottolineava Marco Boccitto sul manifesto del 5 agosto anche in Niger i militari golpisti hanno ricevuto dall’Occidente la loro «educazione sentimentale». Gli stessi militari italiani – sulla cui sorte ci rassicura il ministro della difesa Crosetto – sono a Niamey per addestrare i nigerini.
Tutto comincia con la fine della Libia di Gheddafi nel 2011, iniziata con l’intervento francese, britannico e americano diventato poi Nato. Era lui il ‘guardiano’ delle coste del Mediterraneo e del Sahel. Un dittatore detestabile ma che teneva in piedi il Sahel: dal Mali al Niger, i dinari libici oliavano i regimi e tenevano in piedi confini di sabbia. Sia l’Unione africana che il presidente del Niger Issoufou Mahamoud avevano messo in guardia l’Occidente dall’attaccare la Libia. Ma chi li ha ascoltati? Nessuno si è preoccupato seriamente di frenare la deriva dei confini.
Dopo la storia è nota: con la disgregazione della Libia avanzano ovunque i gruppi jihadisti, da Al Qaeda all’Isis, e i movimenti irredentisti.
Le frontiere che vediamo oggi disegnate sulle mappe sono più virtuali che reali, in particolare quelle nel triangolo tra Niger, Mali e Burkina Faso. I francesi nel 2022 fanno le valigie e mettono fine all’operazione Barkhane ripiegando dal Mali al Niger, a loro posto a Bamako arrivano nuovi generali al potere e i russi della Wagner: che, è bene sottolinearlo, non riscuotono un così grande successo ma agli occhi di chi è al potere hanno una verginità coloniale e non chiedono alcun rispetto dei diritti umani e politici.
Del resto che rispetto abbiamo noi dei Paesi africani? Siamo qui a spingere perché diventino i guardiani delle nostre frontiere, cosa che non piace a nessuno, come ha ribadito più volte il presidente tunisino Saied, criticabilissimo per le sue espressioni razziste sui migranti ma con le spalle al muro per la crisi economica e finanziaria di un Paese che sta affondando.
Non sono crollate solo le frontiere del Sahel. A Ras Jedir, confine tra Libia e Tunisia ormai fuori controllo, c’è un giro d’affari di contrabbando per 500 milioni di dollari l’anno: il carburante arriva dalla Libia, dove il costo è sostenuto all’80% dallo stato, passa l’alcol dall’Algeria, l’hashish dal Marocco, poi frutta, verdura elettrodomestici e, naturalmente, esseri umani in mano ai trafficanti. Un’intera regione dell’Africa del Nord ma anche sotto, nel Sahel, vive di traffici illeciti. E come farebbe altrimenti a sopravvivere la Tunisia?
Con la fine di Gheddafi Tunisi ha perso 350mila posti di lavoro in Libia che sostenevano l’economia mentre con le “primavere arabe” settemila tunisini si arruolavano con i jihadisti per la guerra in Siria. Oggi Assad è stato riammesso nel grembo del mondo arabo e loro sono tornati in un Paese che non riesce a dare lavoro e pane a nessuno. Non si può pensare che rivolgimenti del genere non abbiano conseguenze.
L’Africa sulla questione dell’intervento in Niger è divisa. Dal Maghreb all’Ovest del continente si levano voci discordanti. Il blocco degli interventisti è guidato dalla Nigeria, 215 milioni di abitanti, con l’esercito più forte della regione e un’economia predominante. Contrari sono i Paesi dei “nuovi golpisti” come Mali e Burkina Faso. Ma anche l’Algeria, che non fa parte di Ecowas, è una potenza assai influente. “Senza di noi in Niger non ci sarà una soluzione”, ha ammonito il presidente Tabboune.
A Roma devono aprire le orecchie visto che Algeri è il nostro maggiore fornitore di gas e il perno di quel Piano Mattei che nessuno ha ancora visto. Come l’araba fenice di Metastasio, «che ci sia ciascun lo dice, ove sia nessun lo sa».
Il Sahel che esplode e il tragico errore Nato con la Libia di Gheddafi