Putin-Erdogan: o il grano russo come quello ucraino, o niente corridoi

Niente corridoi per il grano ucraino finché l’Occidente ostacola il grano russo. L’incontro con Erdogan non basta, le promesse dell’Onu nemmeno, Putin rifornirà grano gratis a sei paesi africani (Burkina Faso, Zimbabwe, Mali, Somalia, Eritrea e Repubblica Centrafricana e ognuno dovrebbe ricevere tra le 25 e le 50 mila tonnellate), ma non di più. Milioni di tonnellate di cereali bloccate nei porti del Mar Nero. Prevista una produzione di 130 milioni di tonnellate di grano delle quali 60 milioni potrebbero essere esportate. 

Mediazione ufficiale poco, cose segrete forse

L’incontro di Sochi, tra Vladimir Putin e il Presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, giunto in Russia per fare da mediatore, è servito solo a certificare quello che già si sapeva: il Cremlino non si sposta dalla sua posizione intransigente e il blocco militare dei trasporti cerealicoli sul Mar Nero continuerà. O, forse, potrebbe anche cessare, ma solo «se l’Occidente si deciderà a non ostacolare le esportazioni russe di prodotti agricoli e fertilizzanti». Formula ambigua perché, cibo e ammoniaca (alcune delle merci che Putin vorrebbe vendere in tutto il mondo) di fatto non sono sanzionati. E allora, di cosa si lamentano a Mosca? Qualche problema c’è.

Le ‘non sanzioni’ a sanzionare tutto

Le sanzioni che invece sono state applicate alle procedure finanziarie internazionali, complicano lo stesso tutto. Anzi, seguire le nuove regole, imposte dagli americani e dall’Unione Europea, pure il commercio di una cassetta di pesce diventa un incubo burocratico. Risultato: nessuno compra più ‘russo’, non perché sia proibito, ma perché gli americani (e gli europei) l’hanno reso di proposito impossibile. Putin ha ribadito con Erdogan che «le promesse erano altre», anche se mancano impegni scritti in questo senso. E non sappiamo nemmeno se la Turchia, nell’euforia della mediazione, non abbia tratteggiato degli scenari che poi l’Occidente non ha voluto (o potuto) rispettare.

Black Sea Grain Initiative

D’altro canto, la ‘Black Sea Grain Initiative’, come sostiene il Wall Street Journal, si è rivelata fragile fin dall’inizio, nel luglio del 2022. Ma allora c’era una convergenza di interessi comuni, che oggi probabilmente si è dissolta. Putin ha il tempo dalla sua parte, come sta dimostrando la lentissima controffensiva ucraina e, last but not least, l’incipiente campagna elettorale per le Presidenziali americane, che sicuramente porterà a una rivisitazione dell’impegno Usa. Il ‘via libera’ al grano di Kiev, l’anno scorso, fu dovuto anche al progetto di Putin, di avvicinare al suo campo, il più possibile, sia i ‘non allineati’ che molti dei Paesi in via di sviluppo. Oggi, la situazione è più decantata e la lunghezza della guerra, a cui gli Stati Uniti e l’Occidente, nonostante la loro forza straripante, non sanno trovare soluzione, probabilmente comincia a innervosire uno spicchio di pianeta sempre più vasto.

Insomma, nonostante abbia provocato la crisi, molte realtà africane, asiatiche e latino-americane continuano a fiancheggiare la Russia.

La via danubiana del grano

Per questo, mostrando una certa sicurezza, Putin ha detto a Erdogan di essere pronto a inviare in Africa, immediatamente, «almeno un milione di tonnellate di grano». Diplomaticamente parlando, la Turchia cerca di trarre il massimo profitto dalla situazione di crisi cerealicola, che si è creata nel Mar Nero dopo l’invasione dell’Ucraina. In questo senso, media con Mosca, ma tratta anche con Washington e Kiev, per trovare quella che ora si chiama ‘la via danubiana’. Fino a quattro milioni di tonnellate al mese di grano, a partire da ottobre, potrebbero essere inviate, fino al Danubio. E da qui imbarcate, su chiatte, fino ai porti rumeni che si affacciano sul Mar Nero. Da lì navi internazionali potrebbero caricare e portare il loro prezioso carico in tutto il mondo dall’Africa all’Asia.

E il ruolo di Erdogan?

Lo scaltro leader turco è anche pronto a favorire la soluzione ‘danubiana’ (salvo problemi ambientali con la Romania), ma naturalmente lo sforzo non è mai gratis. Farà valere, al tavolo dei negoziati con Biden, tutto il peso della sua alleanza, vero parametro di misura di tutto quello che chiederà. A cominciare dai caccia F-16. Questo non vuol dire che i rapporti col Cremlino verranno messi in secondo piano. «La Turchia, membro della Nato – ricorda il Wall Street Journal – ha mantenuto stretti legami sia con Mosca che con Kiev. Erdogan è rimasto in contatto con Putin durante tutta la guerra e Ankara non ha aderito alle sanzioni occidentali contro la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. È diventata così un partner commerciale e un hub logistico per Mosca, compresi beni ed energia. Le aziende turche hanno esportato decine di milioni di dollari in macchinari, dispositivi elettronici, pezzi di ricambio e articoli di cui la Russia ha bisogno per le sue forze armate.

Putin, nel frattempo ha accettato di ritardare i pagamenti per le importazioni di gas russo contribuendo ad alleviare la crisi economica della Turchia».

Dedollarizzazione e nucleare russo

E proprio su questo tema i due hanno discusso, facendo soprattutto riferimento a un aspetto che sta molto a cuore ai russi (ma anche alla Cina), quello dei pagamenti in valuta locale. Cioè, la ‘dedollarizzazione’. L’ultimo argomento sollevato da Putin non farà molto piacere a Biden: la Turchia nucleare targata Russia.

L’anno prossimo verrà inaugurato il primo reattore del megaimpianto di 20 miliardi di dollari, costruito da Rosatom. Usi civili, si dice. D’altro canto i russi di Rosatom devono essere proprio bravi. Sapete chi sono i loro migliori clienti? Gli Stati Uniti.

 

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