
Una ‘Sublime porta’, come si diceva una volta, divenuta vorticosamente girevole, capace di elaborare (e applicare) strategie politiche, economiche e diplomatiche fin troppo sorprendenti. La Turchia non tiene la barra dritta, ma la sposta a seconda di dove tiri il vento. E questo atteggiamento è sottolineato dal suo approccio cinico, anzi, da vera “stilita” della diplomazia, che emerge dal suo ruolo di mediazione nella crisi ucraina.
Erdogan è ambizioso e, sotto sotto, sogna (forse) i tempi belli di Solimano il Magnifico o quelli eroici dell’assedio di Vienna. Certo, in versione riveduta e corretta. L’Europa gli serve da retrobottega. I suoi occhi, partendo dal Mediterraneo orientale, guardano all’Asia centrale, fino al Turkmenistan. E anche oltre.
Il suo atlantismo? Di convenienza. Quindi, tutto sommato, di questi tempi, visti i chiari di luna, abbastanza “sicuro”. Nel senso che Russia e Cina possono garantire sponde e business a prezzi da saldo, ma è grazie all’Occidente che si riesce a sbarcare il lunario.
Già, l’economia. Qui per Ankara cominciano i dolori. Erdogan ha “consigliato” alla sua Banca centrale una strategia monetaria d’assalto, all’ultimo sangue: tassi bassi, crescita a ogni costo e inflazione da neurodeliri, che il mese scorso ha toccato l’84 per cento. Risultato: gli altri sono in recessione, mentre la Turchia galleggia. Per ora. Ma il rischio che tutto il sistema-Paese faccia un botto è dietro l’angolo.
L’economia è cresciuta del 3,9% nel terzo trimestre di quest’anno, in calo rispetto al 7,6% del trimestre precedente, ma l’inflazione è esplosa, rispetto a meno del 20% di un anno fa. Il Fondo monetario internazionale ha allora dettato regole di condotta (aumento dei tassi d’interesse) che la Banca centrale turca ha ignorato, addirittura rincarando l’azzardo: il tasso ufficiale di riferimento che è sceso al 9% dal 16% che era. La lira si è deprezzata del 36% su base annua e gli spread sui credit default swap turchi, che assicurano gli investitori contro il rischio di insolvenza sovrana, sono scambiati sopra i 500 punti base, il che indica un pericolo considerevole.
Anche le tre principali agenzie di rating internazionali – Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch – hanno assegnato un rating B al credito della Turchia, suonando l’allarme. Erdogan fonde convinzioni religiose (vede i tassi come una forma di usura) a un’istintiva diffidenza verso le istituzioni finanziarie internazionali. Inoltre, sondaggi alla mano, si prepara alle elezioni generali del giugno 2023, cercando di acquisire un consenso “tutto e subito”. Cosa che implica l’obbligo di evitare politiche di austerità monetaria.
Comunque, la popolazione dovrà pagare di sicuro per i sogni politico-nazionalistici del suo Presidente. Almeno dopo le elezioni, quando il “sultano” avrà incassato i dividendi delle sue scelte. Ma questa politica rivolta solo al mantenimento di una crescita elevata aumenta il rischio di instabilità finanziaria, facendo crollare il cambio della lira e mettendo a rischio default il Paese.
Il 2023, insomma, si presenta come un anno in salita, che potrebbe riservare brutte sorprese. Specie se i nodi della precarietà finanziaria turca verranno al pettine tutti in una volta. Secondo il prestigioso think-tank americano ‘Stratfor’, «il FMI ha valutato che la Turchia probabilmente dispone di riserve di liquidità esterna insufficienti, il che significa che è a maggior rischio di instabilità finanziaria esterna».
Le riserve di valuta estera della Banca centrale turca sono fortemente diminuite in termini lordi e ora sono negative, una volta contabilizzate le passività. Inoltre, va aggiunto che il settore delle imprese potrebbe assistere a un aumento delle insolvenze nei prossimi anni”. In definitiva, se non è un bollettino di guerra poco ci manca. Erdogan, però, cerca di bilanciare il difficile momento economico con un attivismo diplomatico spregiudicato.
Se in Ucraina Putin dovesse perdere, ritengono diversi analisti, i turchi potrebbero sfruttare i vuoti di potere creatisi in Siria e nel Caucaso meridionale. Senza il sostegno russo all’Armenia, Erdogan appoggerà l’Azerbaigian. Se, invece, il conflitto tra russi e ucraini si allungherà sine die, Ankara cercherà opportunisticamente di continuare a proporsi come “mediatrice disinteressata”. Acquistando energia a prezzi “politici” da Mosca e facendole da sponda, per aggirare le sanzioni.
Una triangolazione fruttuosa, visto che coinvolge anche altri Paesi. Allo stesso tempo Erdogan venderà armi ed equipaggiamenti all’Ucraina e terrà la Nato sotto la sua fibbia, ogni volta che ci sarà da prendere una decisione importante. Gli Ottomani, insomma, sono tornati. O, forse, non se n’erano mai andati.