
In termini diplomatici, la rovinosa campagna mediorientale, scatenata dai massacri di Hamas, per Biden comincia ad avere costi insostenibili. Al di là delle solidarietà di rito dei governi alleati, che comunque va evaporando, il Presidente Usa ha, praticamente, il mondo contro. The Guardian ieri ha ricordato che Biden ancora «difende in modo stridente il rifiuto di chiedere il cessate il fuoco a Gaza», anche se poi all’Onu ha fatto astenere gli Usa senza esercitare il diritto di veto sulla risoluzione della «pausa umanitaria temporanea». E questo è un campanello d’allarme significativo per Netanyahu: vuol dire che il vento è girato e che Biden non potrà più coprirlo a lungo. Anche perché, nella sua Amministrazione, dilaga la rivolta.
Ieri, un report allarmatissimo di Haaretz metteva in guardia sui richiami, contemporaneamente stizziti e preoccupati, in arrivo dagli ‘adviser’ della Casa Bianca: «Mentre Israele continua la sua invasione a Gaza – scrive il giornale di Tel Aviv – i funzionari statunitensi temono che la relativa quiete in Cisgiordania possa rapidamente trasformarsi in una nuova guerra su vasta scala. Cioè, qualcosa che né l’America e nemmeno Israele, in questo momento, possono permettersi politicamente».
Resta il fatto che, tutti gli analisti più informati, concordano su una progressiva divergenza di vedute tra Washington e Tel Aviv. Secondo Patrick Wintour, del Guardian, gli indizi portano in un’unica direzione: gli americani stanno mettendo Israele sotto pressione. Da quando il Ministro degli Esteri, Eli Cohen, ha confessato che il suo Paese avrebbe avuto «solo due o tre settimane per operare» (prima di vedersi imporre un cessate il fuoco), l’umore internazionale è peggiorato. Anche perché nessuno conosce i piani di Netanyahu per il ‘day after’. E tutti stanno cominciando a diventare sospettosi, sulle reali intenzioni israeliane.
Per la verità, il clima di marasma politico-strategico, vissuto in questo momento dallo Stato ebraico, è testimoniato dalla miriade di analisi (e di interrogativi) che appaiono sulla stampa. Il comune denominatore è che si brancola nel buio. Ci si concentra sulla ‘sicurezza nazionale’, quando tutti sanno invece che i veri problemi (irrisolti) sono da ricercare, prima di tutto, nella fragilità istituzionale israeliana di questo periodo. Così, analizzare gli ultimi 20 anni della storia d’Israele potrebbe rivelarci i motivi che hanno riproposto, in maniera traumatica, un conflitto, quello tra ebrei e palestinesi, che la nostra coscienza collettiva aveva quasi rimosso.
Si tratta di domande che gli stessi cittadini israeliani, scioccati dalla violenza dello ‘Shabbat nero’ del 7 ottobre, si fanno. Provando anche, con molta onestà intellettuale, a utilizzare un approccio ‘cooperativo’: «dove abbiamo sbagliato anche noi?». Su queste basi, si scopre come le linee della riflessione siano indispensabili, per non ricadere, eternamente, in un ciclo fatto solo di fragili tregue armate. Nel dibattito che infuria in Israele e che punta sulle gravi debolezze manifestate dal governo Netanyahu, c’è anche la chiave per riuscire a capire chi detenga effettivamente il potere. Non formale, ma sostanziale.
La pace è difficile perché anche il comportamento degli attori in campo è incomprensibile. E lo è perché si tratta non di ‘blocchi’ sociali e politici, ma di ‘conglomerati’ molto frastagliati. E questo vale sia per gli israeliani che per i palestinesi. Le lotte interne (quella che, per mettere una foglia di fico, a volte chiamiamo ‘dialettica’) rendono il sistema complesso e quindi imprevedibile. Cioè, alla fine, ingovernabile. Per questo, pur con tutti i suoi difetti, il povero Biden fatica a capire e a farsi capire. Gli psicologi la chiamerebbero «dissonanza (diplomatica) cognitiva».
Però, ogni cosa ha un prezzo e il costo del sostegno incondizionato di Biden, a un premier che bombarda gli ospedali (con tutte le giustificazioni ‘tattiche’ del caso) può essere molto salato. Già le rivolte, nello zoccolo duro della burocrazia federale americana, non si contano più.
E anche il Partito Democratico perde pezzi. Insomma, la Casa Bianca ha l’obbligo di capire che per non perdere pure la faccia, oltre a molti potenziali alleati, deve finirla di ‘chiedere’ un cessate il fuoco. Deve solo imporlo. Lo può fare.