Fine del giornalismo e altri inizi

Fine è un termine ambiguo. Contiene una sottile indicazione di senso, un punto d’arrivo oltre il quale non si va, e il riferimento verso il quale far camminare i propri passi, le idee, i progetti. Così, aver gettato nella discussione il titolo “Fine del giornalismo” aiuta a capire quale fine espediente possa rappresentare in una situazione così oscura, mediaticamente, da far pensare alla fine di un percorso glorioso, o all’inizio invece di una nuova finalità della narrazione di ciò che accade, dunque del mondo intorno a noi.

Premessa doverosa per aprire un dialogo su questi temi. Considerando un elemento: il giornalismo così com’è funziona abbastanza bene. L’arena mediatica è operosa, il successo di alcuni personaggi illumina la scena, la capacità adattativa ai tempi televisivi insieme all’acquisizione delle tecniche comunicative, rapide e senza troppa profondità, rende alcuni bravissimi, altri meno ma sempre utili nella società dello spettacolo. I grandi giornali vanno avanti, si sono abbastanza adeguati alle nuove tecnologie, perdono copie ma navigano tranquillamente come grandi navi nella laguna di Venezia. Funzionano, insomma. Funzionano più o meno come funziona il nostro paese. Rappresentano una certa utilità di sistema. Nonostante tutto.

Se poi invece parliamo di democrazia, di informazione civile, le cose cambiano. Ma le cose cambiano sempre, se cambia il punto di vista.

Dal punto di vista della multinazionale, che basa la sua scala di valori unicamente sul profitto, il manager che taglia teste mandando a casa personale, mettendo famiglie sul lastrico, è un grande professionista da premiare con soldi e carriera. Dal punto di vista del lavoratore che ha tre figli da mantenere e perde il lavoro è un criminale. Tutto il resto è apatica indifferenza per i destini altrui. Con una netta predisposizione ad ammirare il ricco, il potente, il padrone.

Giornalismo secondo il punto di osservazione

Ecco: il giornalismo funziona o non funziona secondo il punto di osservazione. Dipende dal complesso sistema di interessi che tocca. Se si pone sulla linea del tempo e non racconta altro, oltre ciò che esprime questo nostro tempo, più o meno bene, ha un valore abbastanza riconosciuto. Se invece crea interferenze rischia di avere un maggior valore etico, minore successo mediatico e riconoscimento economico.

Su questi temi sarebbe utile riflettessero insieme giornalisti di ogni età, professionisti, aspiranti, docenti, cronisti che fanno inchieste, narratori controcorrente, lettori, cittadini. Il fine o la fine del giornalismo? E se il fine fosse la fine?

Tina Merlin sul Vaiont

Occorre prendere spunto dal tenace ed etico lavoro giornalistico di Tina Merlin sul Vajont, prima e dopo il disastro industriale (per usare le parole di Marco Paolini) del 9 ottobre 1963 che uccise quasi 2000 persone. Un’inchiesta giornalistica durata anni, in cui la nostra cronista si è trovata – sola contro tutti – a raccontare e a documentare un rischio ambientale enorme, dando voce ai poveri montanari, contro il ricco e ottuso sistema di connessioni tra politica, media e profitto. Un sistema che, tra omissioni, indifferenza e piccole convenienze, ha lasciato che la tragedia accadesse, come fosse un rischio calcolato, come se fosse un evento naturale inevitabile.

Il progresso ha dei costi – si continua anche oggi a ripetere – e quei costi qualcuno dovrà pur pagarli. Tutto sta a vedere chi paga e chi incassa altissimi benefici.

Scriveva Tina Merlin sul Vajont, vent’anni dopo il disastro, nel libro bellissimo Sulla pelle viva: “Resterà un monumento a vergogna perenne della scienza e della politica. Un connubio che legava strettissimamente […] quasi tutti gli accademici illustri al potere economico. Che a sua volta si serviva del potere politico, in questo caso tutto democristiano, per realizzare grandi imprese a scopo di pubblica utilità – si fa per dire – dalle quali ricavava enormi profitti. In compenso il potere politico era al sicuro sostenuto e foraggiato da coloro ai quali si prostituiva. La regola era – ed è ancora – come in tutti gli affari vantaggiosi, quella dello scambio”.

Declino e politichetta

Oggi, a 60 anni di distanza da quei giorni, possiamo dire che lo scambio tra potere economico e politico, con l’intermediazione mediatica, è più florido che mai. Viviamo da decenni in un Paese in declino, attraversato da forze oscure e altre meno indecifrabili, tra emergenze e politichetta di breve respiro, in un crollo prima culturale e poi politico straordinario, costante, e siamo ormai talmente assuefatti che ogni futuro ci sembra ineluttabile. La fine della democrazia ci sembra ineluttabile. Quasi tutto questo fosse il fine per la fine…

Per questo, senza arretrare culturalmente, ma continuando a coltivare la possibilità che si possa agire anche con piccole cose per un mondo migliore, la riflessione sul mestiere di giornalista e la democrazia sembra ancora più attuale. Serve a seminare dubbi, a dialogare su che cosa vuol dire intraprendere la strada del giornalismo, sulla memoria che è utile se innerva il presente guardando al futuro. A porre all’attenzione dei cittadini i rischi dell’indifferenza e del quieto vivere, quelli che restano inascoltati dal rumore di fondo della pioggia di informazioni che mai scendono a livello della coscienza, che quindi non formano pensiero e capacità di capire, nel modo più semplice, ciò che ci serve e ciò che ci affossa.

‘Imparare qualcosa’ quando?

Scriveva Tina Merlin venti anni dopo la tragedia: “Oggi tuttavia non si può soltanto piangere, è il tempo di imparare qualcosa”… Sono passati altri quaranta anni e il tempo di imparare qualcosa non è ancora arrivato. Di sicuro, però, questo incontro sul giornalismo civile, insieme alla straordinaria notte di teatro civile di domani, Vajonts23, pensata e organizzata da Marco Paolini insieme con la Fabbrica del mondo, remano contro l’apatia dell’epoca fatta di battaglie secondarie, ma urlate mediaticamente, e dosi massicce di assuefazione alla bruttezza.

 

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