
“Le valute oscillano – ha titolato il Wall Street Journal – mentre gli aumenti della Fed spingono gli altri a muoversi”. E la BCE? Ha alzato (quasi timidamente) i tassi di 0,75% tre settimane fa. Poi si vedrà. E il differenziale con la Fed adesso è del 2,50%. Troppo.
Per far capire quello che sta succedendo, basta guardare alla lista delle Banche centrali che hanno ritoccato in contemporanea (quasi precipitosamente) i loro tassi. Cominciamo dalla Svizzera (+0,75%) e dal Regno Unito (+0,50%), che ha portato il suo tasso totale al 2,25%. Ricordiamo, tanto per avere un’idea, che il livello dell’inflazione nelle isole di Re Carlo III supera il 10%.
Liz Truss premier e Kwasi Kwarteng Cancelliere dello Scacchiere, hanno confezionato un piano di ‘deficit-spending’ (cresci facendo debiti) che farebbe impallidire Keynes, e sta tagliando le tasse ai ricchi. Ma la sterlina è ulteriormente sprofondata e i titoli di Stato inglesi circolavano come le figurine dei calciatori. Mentre la Truss finisce di distruggere l’economia del Regno Unito, gli altri hanno suonato la sirena del “si salvi chi può”. A un tasso del 2,25% è arrivata anche la Norvegia (+0,50%), mentre il Giappone si è tenuto ancora basso, allo 0,1%. Per quanto riguarda il Paese asiatico, abbiamo già scritto che, rispetto alle altre potenze industrializzate, si muove in controtendenza. Infatti, ha un’inflazione intorno al 2,8% e una crescita del Pil asfittica (quest’anno sarà meno del 2%). Insomma, il Giappone è in stagnazione e non può fare politiche monetarie restrittive. In controtendenza anche la Turchia, che ha addirittura tagliato il tasso di riferimento di un punto, portandolo al 12%. E questo nonostante Erdogan debba fare ogni giorno i conti con un’inflazione superiore all’80%.
Ovviamente, al di là di tutte le altre ripercussioni, la prima vittima sacrificale è la valuta nazionale. La lira turca è ormai diventata carta straccia e il cambio col dollaro è precipitato a livelli mai visti. Proseguendo il nostro tour delle Banche centrali, che si sono disciplinatamente accodate alle decisioni della Fed, vanno anche citate quella delle Filippine (mezzo punto, al 4,25%), di Taiwan (+ 0,125, all’1,625%), dell’Indonesia (mezzo punto, al 4,25%), del Sudafrica (+0,75%, fino al 6,25%), del Brasile (inflazione all’8,7 e tassi invariati al 13,5) e della Corea del Sud (al 2,25%, con un 50 punti base in più). Canada (al 3,25%, 75 punti base in più) e Svezia (a 1,75%, con 100 punti alzati in una volta) avevano già pensato in precedenza a stringere la tenaglia monetaria.
Manca, come si vede, la Banca centrale europea, ma di questo parleremo tra un attimo. Prima dobbiamo riflettere su quello che dice la World Bank, che non è esattamente un istituto finanziario classico, ma ha compiti di sostegno alla crescita delle aree del pianeta meno sviluppate. E qui abbiamo un’altra sorpresa, molto negativa del “decision making process” che parte dall’America: il prossimo anno sarà un periodo di recessione globale, se le banche centrali continueranno ad alzare i tassi d’interesse.
Beh, più che una previsione è una certezza. Il motivo si chiama superdollaro. Tutte le transazioni più importanti, l’acquisto di energia, di materie prime e di semilavorati, avvengono in dollari. Se la Fed americana fa una politica aggressiva che finisce per rafforzarlo in maniera prepotente, tu gli devi andare dietro, se no la tua valuta crolla e, alla fine, quando importi qualsiasi cosa, dal gas ai metalli, importi nuova inflazione. È un cane che si morde la coda, perché alzando i tassi, da un lato ti difendi, ma dall’altro raffreddi l’economia, fino ad andare in recessione. È il grande dilemma dell’Europa contemporanea, stritolata in una morsa fatta da forze economiche divergenti, come, appunto, l’inflazione e la recessione. In mezzo, e qui torniamo al discorso di prima, c’è la Banca centrale europea, tramortita dagli eventi e lacerata da scuole di pensiero diverse.
Ci ripetiamo, ma il concetto è basilare. L’Eurozona, l’area della moneta unica, è sviluppata, economicamente e finanziariamente, a macchie di leopardo. Ha prospettive e, soprattutto, aspettative, diverse. Comportamenti monetari “asimmetrici”, insomma, favoriscono alcuni e sfavoriscono altri soci del “club”. Il mercanteggiamento politico, alla base delle successive decisioni finanziarie sui tassi è lungo, logorante e ritarda l’efficacia delle misure. Per questo la Banca centrale europea è sistematicamente in ritardo rispetto agli altri partner dei Paesi industrializzati e fabbrica incertezza, che trasferisce ai mercati.
La BCE, a critica di molti, è gestita male, e la Commissione, tutta presa da problemi di valori alti ma di lungo periodo, è lenta sul presente concreto. La BCE “rimanda”, come sta facendo ora con il rialzo dei tassi e rischia di schiacciare l’euro e di far impennare l’inflazione a livelli mai visti. Predisponendo un terreno di coltura congeniale per alimentare turbolenze sociali. L’ultimo Bollettino economico della BCE è chiarissimo, però: le aspettative d’inflazione restano elevate e i tassi saliranno. Quanto rapidamente non si sa. Fosse solo per i tedeschi, traumatizzati dalla storica ecatombe dei prezzi di Weimar, anche domani mattina.
Isabel Schnabel, del “board” di Francoforte è stata chiara e non lascia speranza al grosso partito di chi vuol far debiti oggi, per far pagare tutto domani alle giovani generazioni. È un trucco vecchio ma funziona ancora. In fondo la politica è anche questo: vendere sogni e sperare che nessuno si svegli.