
Narges Mohammadi, 51 anni, si è battuta per i diritti delle donne e l’abolizione della pena di morte. Attualmente sta scontando diverse condanne nella prigione Evin di Teheran, per un totale di circa 12 anni di reclusione con accuse varie, compresa la propaganda contro lo Stato. Narges Mohammadi –annotazione storica significativa-, è il vice del Centro per i difensori dei diritti umani, l’organizzazione guidata da Shirin Ebadi, a sua volta vincitrice del premio Nobel per la pace esattamente vent’anni fa.
Lo slogan della rivolta non violenta iraniana. E il Nobel per la pace ne è la testimonianza. certificazione di fronte al pianeta ferito da molteplici linee di frattura e lanciato in una sfibrante corsa al riarmo. La rivoluzione al femminile iraniana per ogni cittadino e cittadina. «Poiché se a qualcuno è negata la cittadinanza piena – in nome del genere, dell’etnia, della religione, degli orientamenti politici o sessuali –, nessuno è davvero cittadino. Anche se sulla carta è convinto di esserlo», ammonisce Lucia Capuzzi su Avvenire.
Per Tehran è ovviamente un complotto. Una manovra occidentale per indebolire la Repubblica islamica dell’Iran, dato che si premia con il Nobel per la pace una donna che ha ripetutamente minato con le sue azioni «la sicurezza nazionale dello Stato». Una lotta simboleggiata dalla sfida di togliersi il velo obbligatorio, emblema delle tante vessazioni che le donne subiscono nella loro vita quotidiana. Un atto, quello di ‘svelarsi’, che, dalla morte di Mahsa Amini, avvenuta un anno fa, ha visto mesi di proteste e di brutali repressioni.
Tuttavia molto difficile immaginare che questa assegnazione possa produrre dei cambiamenti per le condizioni in cui è costretta Narges Mohammadi.
Per il regime degli Ayatollah diventerà probabilmente fondamentale tenere il punto, continuando a imprigionare la neo Nobel ‘elemento sovversivo e pericoloso’. Così come le proteste interne e le condanne internazionali non sono servite ad alleggerire i controlli e le punizioni contro le donne ‘malvestite’ (badhijab), annota Riccardo Radaelli, mentre a Teheran, hanno prevalso i falchi, con la chiusura a ogni concessione.
Con la declinante Guida suprema, Ali Khamenei, secondo cui ogni concessione in campo morale o di costumi significherebbe il crollo dei valori fondanti della Repubblica islamica. Cedere sul velo, significa mostrarsi deboli e dover cedere su tutto.
Degli ideali rivoluzionari iraniani del 1979 è rimasto poco o nulla, se non degli slogan ormai logori dietro cui si nasconde solo un potere illiberale, corrotto e inefficiente. Ed ecco che permettere di togliere il velo a milioni di donne iraniane che non sopportano più di vestirlo significherebbe ammettere che l’imposizione di una interpretazione dogmatica e massimalista dell’islam sciita ha screditato la religione stessa.
Ciò che i vertici politici e i capi dei potenti pasdaran (le guardie della rivoluzione islamica) sembrano incapaci di capire, è che continuare a irrigidire un regime così impopolare con forme religiose quasi caricaturali, facendo dell’Iran una immensa prigione mentre la qualità della vita continua a peggiorare per la disastrosa gestione dell’economia è una strada estremamente pericolosa e controproducente.
A minare «la sicurezza della Repubblica islamica», alla fine, sono proprio loro. Non le donne che lottano per togliersi un velo.