Nel Myanmar oppresso dai militari golpisti, continua il calvario di Aung San Suu Kyi. La premio Nobel per la pace, che ha stravinto le ultime elezioni libere tenutesi nel Paese, ed è stata arrestata per l’ennesima volta dall’esercito dopo il golpe del 2021, accusata di reati che tuttavia i militari hanno sempre rifiutato di discutere pubblicamente.
Ora si aggiunge una nuova beffa. La leader birmana ha ottenuto uno sconto di pena di 6 anni sui 33 cui è stata condannata. Il problema è che, avendo ormai 78 anni, le sarà impossibile ritornare sulla scena pubblica, pur essendo stata trasferita dal carcere ai domiciliari (come è già avvenuto molte volte in passato).
Nel frattempo il Myanmar è in piena rivolta. I militari golpisti si sentono coperti dall’appoggio russo e, soprattutto, cinese. Il Myanmar ha una posizione chiave nella “Via della Seta” così cara a Xi Jinping. Inoltre tanto Mosca che Pechino considerano strategica la posizione della ex Birmania ai fini della lotta contro i Paesi occidentali.
La popolazione, però, non sembra affatto rassegnata a dispetto del pugno di ferro adottato dal regime. Vi sono innanzitutto le minoranze etniche come Karen, Shan, Kachin e Chin – tutte dotate di un proprio esercito – che da molti anni reclamano l’autonomia (e in alcuni casi la piena indipendenza) dal governo centrale. In molte aree, pertanto, è in atto una sanguinosa guerra tra l’esercito della giunta golpista e queste forze a base etnica.
Il Tamadaw, l’esercito birmano, non esita a colpire i civili con lo scopo di intimidirli. Finora, però, non c’è riuscito, e scioperi e proteste diventano sempre più frequenti in ogni area del Paese. Gli osservatori internazionali parlano di undicimila morti, decine di migliaia di feriti e circa due milioni di sfollati interni.
Il tratto che caratterizza la giunta golpista è l’assoluta impermeabilità alle proteste internazionali. Ciò vale tanto per le infinite condanne di Aung San Suu Kyi, quanto per le brutali stragi di civili compiute mediante bombardamenti indiscriminati.
Alcune aree del Paese, soprattutto nella parte settentrionale, risultano liberate e non più sotto il controllo dell’esercito che, in alcuni casi, ha fraternizzato con i ribelli. Di qui la frustrazione dei golpisti che si sentono sempre meno certi della vittoria finale.
Il comandante della giunta, il generale Min Aung Hlaing, ha proclamato per l’ennesima volta lo stato di emergenza, ma tale misura in passato non ha mai funzionato. Tant’è vero che i problemi di sicurezza sono ormai comuni anche a Mandalay, la seconda città del Myanmar.