
Se anche i Paesi che storicamente sono sempre stati i bastioni dell’Unione Europea vanno alla deriva, allora il futuro è proprio cupo. Ieri le piazze di decine di città francesi ribollivano. Centinaia di migliaia di persone hanno protestato contro il governo della signora Bonne e del Presidente Macron, incapace di arginare il caro-vita. Nel mirino dei manifestanti anche la severa riforma pensionistica messa in cantiere contro i lavoratori transalpini. Ma la notizia più impressionante, arrivata ieri, ha riguardato la Germania. Il dato sull’inflazione tedesca è stato, per i mercati, un colpo di cannone alla tempia.
Dunque, a Berlino l’aumento dei prezzi ha toccato il 10,9%, un livello che non si conosceva da settant’anni. In un mese è aumentato di un’enormità, di circa 2,1% e testimonia l’incapacità del governo di gestire la crisi. Non solo, per colpa della Germania l’inflazione ‘armonizzata’ dell’Eurozona oggi potrebbe arrivare al 9,7%, costringendo la Banca centrale europea a politiche di stretta monetaria più aggressive. Questo nuocerebbe a Paesi, come l’Italia, che hanno grandi debiti pubblici e necessità di spingere sull’acceleratore della crescita.
Invece, il cancelliere Scholz sta attuando una politica finanziaria che è tutto il contrario di quello che richiederebbe un elementare principio di solidarietà europea. Se Trump diceva “America first”, Scholz ribadisce “la Germania prima di tutto”. Non c’è grande differenza. Solo che, nonostante i suoi tentativi, sta distruggendo lo stesso l’industria tedesca. Ora, per mettere una pezza ha varato un fondo per un “tetto al prezzo dell’energia”. Costo 200 miliardi, a debito naturalmente.
Il Financial Times scrive che i prezzi dell’energia, su anno, sono aumentati del 44% (35,6% solo ad agosto) e quelli dei generi alimentari quasi del 20%. Le previsioni economiche degli istituti specializzati sembrano una lotteria. L’anno prossimo in Germania sarà recessione. Nel migliore dei casi, intorno allo 0,5% e nel peggiore, fino a un catastrofico meno 7% del Pil. Torsten Schmidt (Leibnitz Institute) dice che l’unica cosa da fare è incrociare le dita: perché se avremo un inverno freddo e mancherà il gas le imprese dovranno chiudere a raffica.
Intanto, anche Praga torna a essere una città in rivolta. Niente a che vedere col 1968, per carità, ma il fatto che piazza San Venceslao sia tornata a stiparsi di manifestanti fa una certa impressione. Tanto che, dall’altro lato dell’Atlantico, persino il New York Times si è immediatamente interessato alla massiccia protesta sociale. “Le proteste di Praga segnalano un inverno travagliato in vista per l’Europa”, è il titolo del quotidiano americano, che poi dice come decine di migliaia di persone (secondo alcune stime 100 mila) siano scese in strada a protestare, spinte dalla crisi energetica e dall’aumento dei prezzi “che sta colpendo i Paesi di tutto il Vecchio continente”.
Il NYT, ecco spiegata la preoccupazione, prevede che la situazione sociale, che ha indotto i manifestanti a chiedere le immediate dimissioni del governo, possa degenerare anche in altri Stati. Nei cortei si sono issate bandiere ceche e gridati slogan come “vergogna, vergogna” oppure “prima la Repubblica Ceca”. Il problema è che la folla inferocita non si muove secondo un percorso “ideologico”, ma raccoglie una massa poderosa e critica di “antisistema” trasversali. Nel fiume della protesta, nota il New York Times, c’erano gruppi di estrema destra, guidati dal populista Ladislav Vrabel, esponenti del Partito comunista, cellule di arrabbiati antieuropeisti e una miscellanea di “antagoniti”, tra i quali anche molti “no-vax”.
Attenzione, però. La maggioranza era composta da gente comune, famiglie che, semplicemente, data la gravità della situazione economica, non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. La Repubblica Ceca ha avuto un crollo verticale negli standard di vita. Gli anni della pandemia sono stati durissimi e poi l’invasione russa dell’Ucraina è stata la botta finale. Ma nonostante ciò, il governo di Praga pensava di avere il controllo della situazione. E si sbagliava. Come ha ammesso Thomas Pojar, consigliere del premier Petr Fiala, la prima manifestazione di protesta, che avrebbe dovuto svolgersi a Praga, era stata sottovalutata dalle autorità centrali. Pensavano di vedere solo 500 persone e se ne sono ritrovate invece davanti oltre 70 mila. Adesso il numero è cresciuto e pure i problemi, mentre le risorse per risolverli non si trovano.
Spesso al centro delle rivendicazioni c’è la storia delle sanzioni alla Russia, che cominciano ad essere mal digerite. Nelle ultime settimane, si erano svolte manifestazioni di piazza anche in Germania, specie in Mecklenburg e in Pomerania, nelle quali si chiedeva l’apertura del gasdotto Nord Stream 2. Poi misteriosamente sabotato. La verità, comunque, è che non si protesta per convinzioni ideologiche, ma più prosaicamente per “fame” o, meglio, per disagio sociale. “Secondo alcuni analisti – scrive il NYT – i prezzi commerciali dell’elettricità, nella Repubblica Ceca, sono più che raddoppiati rispetto allo scorso anno. Circa il 10-15% delle famiglie è stato colpito duramente, dice una ricerca dell’Istituto Stem di Praga, che consiglia il governo. Anche la classe media sta iniziando a sentirsi in difficoltà, con il suo reddito disponibile in calo del 50% rispetto allo scorso anno”.
Non c’è bisogno di ricordare che l’alto costo dell’energia finisce, poi, per trasmettersi, attraverso la catena produttiva, sui costi finali dei beni realizzati. Inoltre rende molto più difficile il controllo dell’inflazione, che viaggia intorno al 17,2%. Prezzi altissimi, ma economia quasi incartapecorita, dato che il Pil alla fine dell’anno dovrebbe salire di un modesto 2% e la disoccupazione restare bassissima (2,2%), segnale di un mercato del lavoro collassato e di un sistema-paese sull’orlo della recessione.
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