Il presidente Erdogan si presenta sulle macerie, chiede unità ma blocca i social che lo attaccano. Ha resistito a crisi, inflazione e corruzione, ma le case che crollano in un istante lo mettono davvero in difficoltà, cresce la rabbia dei turchi (e dei siriani)
Erdogan si gioca l’esito delle elezioni presidenziali e politiche del 14 maggio dalla risposta che il suo esecutivo saprà dare recuperando la gravi inefficianze iniziali all’emergenza che non esaurisce certo nella ormai disterata ricerca di ancora qualche sopravissuto, ma sull’immediato futuro di centinaia di migliaia di persona ora davvero senza tutto. Ma la politica e qual po’ di democrazia che resiste, macina tutto e impone regole e analisi impietosamente ‘normali’ su cui siamo costretti a ragionare.
Fino ad ora Erdogan sembrava essere in vantaggio nei sondaggi su una opposizione ancora troppo divisa sulle risposte da dare in un momento di grave crisi economica, con un tasso di inflazione del 57% a gennaio, le riserve valutarie in calo, con una lira sempre più svalutata e una politica dei tassi di interesse inadeguata. Se lo sfidante finale sarà il poco carismatico Kemal Kilicdaroglu, del maggior partito di opposizione, il CHP, il gioco sarà facile per Erdogan al potere da circa venti anni: dal 2014 come capo dello stato di una Repubblica presidenziale e prima come premier dal 2003 al 2014. L’unico candidato che avrebbe potuto infastidirlo seriamente nelle urne, il moderato sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, è stato messo da parte da un provvedimento molto contestato della magistratura che lo ha condannato a due anni di carcere.
Erdogan è stato dato per finito numerose volte in passato da numerosi analisti improvvisati di questioni mediorientali: le proteste di massa di Gezi Park nel 2013, la rottura sempre lo stesso anno dell’alleanza con il predicatore islamico, Fethullah Gulen, da allora rifugiatosi in Pennsylvania e diventato la “bestia nera” di Erdogan che lo accusa di essere l’ideatore del fallito golpe militare del luglio 2016. Anche in quella occasione Erdogan adottò lo stato di emergenza che ne rafforzò i poteri e gli permise una politica dal pugno di ferro in materia di sicurezza interna.
Come un’araba fenice Erdogan è sempre riuscito a recuperare lo svantaggio iniziale con una capacità tattica e di mobilitazione delle folle anatoliche adottando politiche conservatrici secondo la morale e liberiste in economia. I suoi compagni di un tempo come l’ex presidente della Repubblica, Abdullah Gul, o l’ex ministro degli esteri Davutoglu, l’ideatore della assertiva politica estera neo-ottomana in Siria, in Africa settentrionale e nei Balcani, sono stati messi da parte una volta raggiunti gli scopi prefissati dal leader.
Ora Erdogan ha dichiarato lo stato di emergenza in 10 province del paese. Una scelta politica che gli permetterà di governare per decreto in gran parte del sud-est della Turchia a maggioranza curda, senza passare dal parlamento di Ankara e relegando in un angolo le autorità locali gestite dai partiti di opposizione (HDP).
Il sisma rappresenta la sfida finale per il ‘sultano’. La responsabilità di aver lasciato crescere città di cartone, e la gestione del disastro prima durante e dopo, potrebbero affondare le sue prospettive perdendo il sostegno contradditorio di un paese di 85 milioni di abitanti, in maggioranza giovani, prigionieri da troppi anni in una crisi di democrazia e di futuro.