In Giamaica si apre una conferenza internazionale dedicata alla raccolta dei «noduli metallici oceanici». Si tratta di ‘formazioni globulari ferrose’, che coprono immense distese delle piattaforme abissali. All’apparenza, sembrano dei banali sassi, ma in effetti rappresentano dei veri e propri giacimenti sparsi di minerali tra i più ricercati. E costosi. Insomma, se si va a raccoglierli, a 5-6 mila metri di profondità, non solo si guadagna un sacco di soldi, ma ci si mette in condizione, perfino, di dominare il mercato delle cosiddette ‘terre rare’. Problemi? Tanti. Primo, il timore fondato della possibile corsa a un inquinamento di quelli catastrofici. Perché la dimensione dello sfruttamento, già ipotizzato a tavolino da una imprenditoria famelica, che aspetta solo luce verde, è planetaria.
Chi gestisce giuridicamente tutto l’affaire è ‘ISA’, l’International Seabed Authority’, Agenzia istituita dall’Onu, che coordina 167 Paesi, e che dovrebbe disciplinare lo sfruttamento delle risorse nelle acque profonde. Senza distruggere l’oceano, è ovvio. Più facile a dirsi che a farsi. Come al solito, quando in ballo ci sono interessi stramiliardari, le grandi battaglie ideologiche fanno la muffa. Così ti ritrovi, a sorpresa, con Paesi come la Corea del Sud, il Giappone, l’India e la Norvegia, che non vedono l’ora di spartirsi il bottino, assieme a Russia e Cina, tanto per fare solo qualche nome di chi vorrebbe ‘dragare’ a strascico i fondali. In effetti, fatta la legge trovato l’inganno, le normative che dovrebbero regolare lo sfruttamento dei minerali bentonici sono alquanto ‘elastiche’. Non siamo ancora al ’liberi tutti’, ma quasi.
Il problema è diventato di massima urgenza, perché la rivoluzione verde e l’introduzione di energie alternative, cominciano a richiedere con sempre maggiore frequenza metalli particolari, come il litio, il manganese, il vanadio, il cobalto e via di questo passo. Ma i giacimenti ‘terrestri’ si stanno esaurendo e i prezzi si stanno impennando vertiginosamente. Quindi, o si corre ai ripari o l’energia verde avrà costi insostenibili. Quindi, corsa alla ‘miniere oceaniche’, e si sgomita e si cercano autorizzazioni per avere zone di ‘prospezione dei fondali’. I più veloci finora sono stati i cinesi, che vorrebbero colonizzare minerariamente mezzo Pacifico, oltre all’Oceano Indiano. Gli Stati Uniti, per ora, se ne stanno in disparte. Non hanno firmato alcun trattato «per questioni di sicurezza nazionale» (non vogliono condividere tecnologie estrattive), e non fanno parte dell’ISA, che li vincolerebbe (un po’ come per le bombe a grappolo Ndr). Tanto, se vogliono qualcosa vanno a pigliarsela e non devono chiedere il permesso a nessuno.
Dal canto loro, invece, Francia e Germania frenano, preoccupate, così dicono, per le conseguenze ambientali dell’assalto, ma non solo per quello. L’ipotesi che la moratoria, richiesta da questi due Paesi, serva anche a guadagnare tempo, per predisporre un piano nazionale di raccolta dei noduli. Sulla moratoria il Regno Unito tace, ma a Londra sottolineano che, prima di tutto, bisognerebbe riscrivere i protocolli che riguardano autorizzazioni, lavori di raccolta, trasferimento dei minerali e, soprattutto, monitoraggio dell’ambiente. Con particolare riguardo all’impatto sull’ecosistema delle acque profonde. Ma siccome le parole di un esperto politico, in casi come questo, pesano più di ogni altra cosa, ecco cosa ha scritto sul Times l’ex Ministro degli Esteri inglese, Lord William Hague:
«La Gran Bretagna deve dire no alla devastazione degli abissi. Gli ecosistemi che si sono evoluti nel corso di milioni di anni impiegheranno solo pochi minuti a essere distrutti dai macchinari. E questo è solo l’inizio. Secondo la revisione commissionata dal governo due anni fa, un’operazione mineraria che duri vent’anni potrebbe scaricare circa 100 mila tonnellate di sedimenti, che si depositerebbero su milioni di kilometri quadrati di fondo marino. Anche con i dovuti accorgimenti, hanno affermato gli esperti, le attività minerarie avranno impatti chiari, che persistono su scale temporali e spaziali relativamente ampie. In parole povere, la devastazione durerebbe secoli e coprirebbe vaste aree dell’oceano». Ogni altro commento è superfluo.