Gaza, sotto l’aspetto militare, è una bomba a orologeria quasi impossibile da disinnescare. Ma, politicamente, forse, è ancora peggio: rappresenta l’esempio di un folle teorema istituzionale, di cui però nessuno riesce a trovare la formula, per dimostrarne l’esistenza. Cioè, si sta facendo una guerra brutale senza sapere ciò che potrà succedere il giorno dopo. E le sorprese non mancano e, anzi, sono clamorose. Perché, contraddicono tutte quello che si sta dicendo in queste ore e smentiscono, sul nascere, scenari troppo ottimisticamente vagheggiati dalla diplomazia. Di fatto, l’apparente ingovernabilità dell’attuale crisi mediorientale è anche frutto di un sempre più evidente caos diplomatico.
Ieri, i segnali sono arrivati tutti in una volta e sono stati inequivocabili. Ha cominciato Biden, dicendo che «il nostro obiettivo è mantenere questa pausa nei combattimenti oltre domani». A patto che Hamas s’impegni a rispettare i termini degli accordi, e cioè che ne liberi altri 10 per ogni giorno in più di tregua. Il Consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, ha chiarito di aspettarsi una risposta in tempi brevi da Hamas. «Dipende da loro», ha detto. La proposta sarebbe già stata accettata da Netanyahu, al quale Biden l’avrebbe sottoposta nel corso di una ‘accalorata telefonata’ svoltasi ieri.
Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, che rivela alcuni dettagli delle delicate trattative, una delegazione di diplomatici del Qatar, su istruzioni della Casa Bianca, si trova da sabato a Tel Aviv, proprio per mediare un allungamento della tregua. Dal canto loro, fonti vicine ad Hamas, hanno replicato dicendo che l’accordo si potrà fare «se gli israeliani continueranno a rilasciare i detenuti palestinesi».
Se Biden cerca di guadagnare tempo, per trasformare la ‘pausa umanitaria’ in un ‘cessate il fuoco’, i veri problemi per lui e per tutti gli altri cominceranno nel momento in cui tacciono le armi. Chi amministrerà Gaza? Tutti gli indizi portano a un’unica risposta: nessuno vuole farlo. Nemmeno Israele, che non spenderebbe più manco uno shekel per quella Striscia di terra ormai ridotta a un cumulo di rovine. E l’Autorità nazionale palestinese? Risposta: un’organizzazione di facciata, che viene risuscitata solo quando fa comodo alle Cancellerie internazionali.
Come ricorda meticolosamente Haaretz, fino allo scorso luglio Hamas e l’Anp, cioè Haniyeh e Abu Mazen si sono cordialmente incontrati in Egitto, a El Alamein, sotto gli auspici di El Sisi. L’obiettivo era quello di arrivare a una sospirata unione palestinese, sulla base di un programma ambizioso, ma che bandisse il terrorismo. Non se n’è fatto niente, anche se è proseguita l’ambiguità dei contatti e se Abu Mazen ha parlato di «un primo passo importante per completare il nostro dialogo». I due gruppi si erano già visti in Turchia, quella volta con la benedizione di Erdogan, dove avevano creato i presupposti per l’incontro egiziano di El Alamein.
Il motivo era dovuto alla crescente ‘frattura’ tra la dirigenza dell’Anp e la popolazione palestinese della Cisgiordania, sempre più frustrata per l’arroganza e la violenza dei coloni ebrei, protetti o addirittura aizzati dall’azione estremista di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, entrambi autorevoli ministri del governo Netanyahu.
Secondo Haaretz, anche Hamas stava perdendo ‘presa’ nella Striscia di Gaza, ma per motivi diversi, legati alla crisi economica e alla qualità dei servizi pubblici offerti. In generale, quindi, anche l’universo palestinese era in crisi, con diverse sfaccettature, da Gaza ai Territori occupati. Così. come lo stesso Israele viveva una difficile fase di politica interna. Il problema, però, è che parliamo solo di qualche mese fa e che, questi problemi, non solo restano aperti, ma si sono persino aggravati.
Le entità che si confrontano e che dovrebbero dialogare per arrivare a un accordo, sono assolutamente indefinite. Può sembrare un paradosso, ma la guerra potrebbe anche durare “per sempre”, semplicemente perché non si sa con chi fare la pace.