«Nella sua nuova vita in un Paese straniero, a Guzel capita spesso di sentirsi rivolgere entusiastici apprezzamenti per Vladimir Putin, quando l’interlocutore di turno capisce che lei è russa. Proprio a causa del suo presidente però lei, il marito e il figlio di due anni hanno lasciato la Federazione». Inizia così il racconto di Francesca Ghirardelli su Avvenire. «Non importa, non c’è sempre il tempo di chiarire a tutti perché ci troviamo a Belgrado», spiega alla reporter italiana. «Quando ai nuovi amici e colleghi serbi riusciamo a raccontare della reale situazione in Russia, alcuni cambiano opinione sul Cremlino».
«Il governo serbo è stato molto disponibile con noi, ci piace vivere qui», ribadisce Guzel, quasi a giustificare il travaglio dell’amore contrastato tra la sua Russia e chi la governa. Originaria di Mosca, Guzel si è trasferita in Serbia un anno fa. «Non siamo attivisti, solo cittadini contrari al conflitto con Kiev. Quando la guerra è iniziata abbiamo deciso di andarcene via».
Dal febbraio 2022 sono 30.000 i russi che, come lei, hanno ottenuto un permesso di residenza in territorio serbo. La stima è, però, di 200mila connazionali che informalmente vi si sarebbero stabiliti.
«La Serbia è uno dei pochi Paesi dove possiamo entrare senza problemi di visto, che vale trenta giorni e si rinnova oltrepassando di nuovo il confine. Si diventa invece residenti se si ottiene un impiego o si ha una proprietà» spiega la donna, che è ingegnere informatico.
«Storica alleata di Mosca e con legami linguistici e religiosi solidi, da quasi due anni Belgrado assiste al singolare arrivo di esuli russi anti-Putin, vivendo la contraddizione di dare rifugio agli oppositori del proprio potente alleato», la sottolineatura di Francesca Ghirardelli. Contraddizioni che pesano su più fronti. La Serbia è candidata ad entrare nell’Unione Europea dal 2012 e, all’Assemblea generale Onu, ha votato a favore della risoluzione che condanna l’invasione dell’Ucraina. Ma ha sempre rifiutato di introdurre sanzioni contro la Federazione russa.
«In città si svolgono eventi e concerti di musicisti russi contro il conflitto, hanno aperto caffè e ristoranti russi, librerie, asili», aggiunge Guzel. «Nella capitale la vita sociale della diaspora è vibrante», spiega Peter Nikitin, fondatore della Russian Democratic Society (Rds), associazione di espatriati nata dopo l’avvio dell’«Operazione speciale». Che ha raccolto finora decine di migliaia di euro per Ong ucraine e, soprattutto, ha promosso cortei contro la guerra per le vie di Belgrado, e questo crea problemi.
«Se per i russi sono state annunciate norme più favorevoli sull’immigrazione (e infatti chi era fuggito in Turchia e Georgia ora viene qui), le autorità serbe hanno cominciato però anche a prendere precauzioni affinché chi protesta non lo faccia con troppo rumore», rivela Nikitin. Così gli esponenti più attivi della Rds hanno subito le prime pressioni. E qualche ammonimento concreto. «A luglio hanno cercato di impedirmi di tornare in Serbia dall’estero. Ho passato due giorni in aeroporto, i media hanno fatto un gran trambusto, e alla fine mi è stato concesso di entrare in Serbia».
Sono invece rimasti senza permesso di residenza il co-fondatore dell’Rds Vladimir Volokhonsky e Yevgeny Irzhansky, organizzatore di concerti no-war. Poi è toccato all’attivista Ilia Zernov, respinto alla frontiera.
«La Serbia accoglie i russi, utili all’economia perché portano soldi, ma scoraggia il dissenso in un contesto in cui la maggior parte della popolazione vede con favore la Russia, Putin e la sua guerra», insiste Nikitin.
Forse non in maniera così netta rispetto a Putin personalmente. Ma a nome di un imprecisato numero di oppositori russi nei Balcani nostri vicini, in Serbia e lì attorno, c’è chi tra loro si ostina a ripetere l’ovvio, «Che Putin non è la Russia». Anche se la Russia attuale sembra ancora essere soltanto Putin.