
Sei scrutini, fino alla mezzanotte italiana, non sono stati sufficienti al Partito repubblicano per fare eleggere ‘speaker’ (presidente) della Camera il suo candidato designato, Kevin McCarthy. Eppure, alla ‘House’ del Congresso i Conservatori hanno appena riconquistato la maggioranza, sia pure solo per una decina di seggi. Ma, evidentemente, il malessere che sta spaccando in due il Paese è molto più profondo e frammentato. Anche i Democratici hanno problemi di ‘compattezza’, però non corrono il rischio di disintegrare il partito. I Repubblicani, invece, hanno le convulsioni e l’elemento divisivo, quello che scatena una vera fibrillazione, è Donald Trump.
Una fetta del GOP ancora gli obbedisce e quasi metà dell’elettorato repubblicano tornerebbe a votarlo alle primarie. Anche Ron se DeSantis, il Governatore della Florida, gli si avvicina con un 35 per cento. La riflessione sull’impasse al Congresso americano, però, va al di là dell’inghippo istituzionale. La più importante democrazia del pianeta vive una difficile fase di transizione. È chiaro che siamo alla resa dei conti, nel Partito repubblicano, che però è lo specchio del progressivo imbarbarimento della vita politica d’Oltreoceano. La rabbia per la mancata affermazione alle elezioni di ‘Mid term’, lo scorso novembre, è montata, fino a trasformarsi in una specie di furia iconoclasta.
Dopo aver conquistato a stento solo la Camera dei Rappresentanti, nel ‘Grand Old Party’ è cominciata la caccia al colpevole. Così, adesso, sembra assurdo rispetto a due mesi fa, ci si scanna tra gruppi, consorterie e clan di varia estrazione territoriale. Al punto che, finora, per la prima volta dopo un secolo e passa, il partito di maggioranza relativa alla Camera non è riuscito a eleggere il suo ‘speaker’. Il candidato scelto e annunciato dalla Direzione del GOP, infatti, Kevin McCarthy, come abbiamo detto, è stato clamorosamente e ripetutamente bocciato, da un gruppo di compagni di partito ‘dissenzienti’. I motivi? La ‘non vittoria’ di novembre ha infiammato i tizzoni che covavano sotto la cenere: l’ingombrante presenza di Trump, in primis, ma anche una linea di politica sociale ed economica, troppo spesso zigzagante, hanno fatto esplodere le contraddizioni e implodere il GOP.
Insomma Mc Carthy sta pagando per tutti la crisi di un partito che stava resuscitando solo grazie alla speculare fragilità dei Democratici e ai molti errori di Biden.
Il candidato ‘speaker’ finora azzoppato è una figura politica complessa. Esponente del mondo repubblicano californiano, negli ultimi anni, specie nei rapporti con Donald Trump, ha fatto il funambolo. Trasformista, equilibrista, opportunista: chiamatelo come volete, Mr. Kevin per restare a galla, nei posti che contano, ha fatto dell’ossimoro politico la sua filosofia professionale. Tutto e il contrario di tutto. Amicone di Trump, dopo l’assalto al Campidoglio l’ha mollato e poi ha preso a ‘galleggiare’, perché, comunque, ‘The Donald’ più o meno indirettamente, controlla centinaia di milioni di dollari per ‘progetti politici’ (le campagne elettorali). In un primo momento, Trump aveva affondato i sogni di gloria di McCarthy, ma poi gli ha dato (contrattandolo?) un ‘endorsment’. ‘Votatelo’, ha detto. Per ora non ha funzionato. La ventina di deputati che non vogliono McCarthy ha continuato a girargli le spalle, scegliendo un candidato di bandiera.
Biden intanto si dice preoccupato, ma politicamente se la ride. È una crisi istituzionale che coinvolge tutta la nazione – aggiunge – scoppiata solo per inimicizie e dissidi tra i nostri stessi avversari. In effetti, se non si trova presto una soluzione il Congresso rischia la paralisi. E Trump avrà il non invidiabile record di continuare a fare più danni da ex di quando era Presidente.