Nel gennaio 1969 Richard Nixon divenne il trentasettesimo presidente degli Stati Uniti mentre la guerra del Vietnam era ancora in corso e continuava la Guerra fredda con l’Unione Sovietica. Era necessario pertanto indebolire l’avversario eventualmente ricorrendo ad una strategia indiretta, come ad esempio minare la compattezza dei paesi del blocco socialista: Cina ed Unione Sovietica, le cui relazioni erano in crisi da tempo, si erano scontrate lungo il corso del fiume Ussuri, ma buona parte dei rifornimenti sovietici al Vietnam giungevano ancora via terra attraverso la Cina, senza contare lo stesso appoggio cinese ai nordvietnamiti.
Sino al quel momento le relazioni sino-americane erano state inesistenti, mancando un riconoscimento diretto tra i due paesi, ma dall’aprile 1971 – cogliendo al volo l’occasione offerta dalla cosiddetta «diplomazia del ping-pong» – le cose cambiarono: nel corso di un viaggio segreto in Cina Henry Kissinger preparò un incontro diretto tra Nixon e Mao.
Il vero terremoto si verificò però in ottobre: pur non votando a favore, né ponendo il veto al riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese come unico rappresentante della Cina nel consesso internazionale, la Repubblica di Cina (ovvero Taiwan) fu in conseguenza espulsa dal consiglio di sicurezza dell’Onu. Alla visita ufficiale di Nixon a Pechino nel febbraio del 1972 – definita da alcuni come «la settimana che cambiò il mondo» – seguirono altri eventi economici importanti.
Già nel 1972 l’interscambio commerciale tra i due paesi sfiorò i cento milioni di dollari, cifra per l’epoca ragguardevole. Gli Stati Uniti, oltre a prodotti agricoli, cedettero anche dieci aerei Boeing e – cosa assai importante per i cinesi – un sistema di guida aerea inerziale. Mentre Pechino continuava infatti a richiedere soprattutto tecnologie avanzate per il proprio sviluppo, gli Stati Uniti erano invece piuttosto restii e continuavano a subordinare le esportazioni di questi prodotti (passibili di impiego militare) alla loro sicurezza.
La stessa Cina inoltre, nel quinquennio dell’apertura, ovvero dalla visita di Nixon alla morte di Mao nel 1976, aveva attraversato un periodo teso culminato con l’arresto della Banda dei Quattro e concluso con l’ascesa al potere di Deng Xiaoping che proclamò la nuova «politica delle porte aperte», anticamera di quella che nel 1978 divenne la «politica delle quattro modernizzazioni». Il 31 gennaio 1979 fu siglato un primo accordo di cooperazione tecnico-scientifica cui seguì da parte del Congresso americano l’abolizione delle barriere tariffarie sulle importazioni.
L’istituzione da parte cinese delle cosiddette Zone economiche speciali, all’interno delle quali erano previste generose agevolazioni fiscali, attirò capitali di investimento soprattutto dagli Stati Uniti con ottimi redimenti. Alla fine del 1985 l’interscambio commerciale cinese era triplicato dal 1978 e in particolare quello con gli Stati Uniti era aumentato di ben sette volte.
Nel 1983, nel corso del primo mandato, il presidente Reagan sostenne la decisione di classificare la Cina come partner commerciale ‘alleato’ ed aumentarono le forniture di tecnologia, sebbene fossero anche insorte controversie sui brevetti in quanto la Cina non riconosceva nello stesso modo la proprietà intellettuale. Nonostante questi piccoli attriti i commerci continuarono con reciproca soddisfazione, anche perché a partire dal 1985 – quando cioè gli Stati Uniti per uscire dalla recessione svalutarono il dollaro – la Cina divenne un partner commerciale fondamentale.
Colossi industriali come General Motors, Coca-Cola, Pepsi, Gillette, Heinz, General Foods, Eastman Kodak e AT&T aprirono sedi in Cina in zone speciali trasferendovi parti della produzione, tutte attratte dalle grandi agevolazioni e dal favorevole regime fiscale. Le performances americane incontrarono però resistenze ad Hong Kong, all’epoca ancora sotto controllo britannico e punto di passaggio tariffario obbligato che aumentava i costi dei prodotti per i committenti (per inciso, a tale proposito si comprende come il ritorno alla Cina della ex colonia inglese abbia risolto alcuni problemi, ma non a tutti). I
n sintesi, tra il 1984 e il 1988, il valore degli scambi aumentò mediamente del 40% annuo. Nel 1986 la Cina decise infine di chiedere l’ammissione al GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) aprendo una pagina nuova nei commerci internazionali.
Nel 1989 la repressione di Tienanmen rappresentò un rallentamento, ma non una battuta di arresto: furono infatti bloccati solamente scambi intergovernativi (per lo più destinati alla sicurezza o alla difesa), ma non i grandi flussi commerciali. Inoltre, nonostante ripetuti richiami al rispetto dei diritti umani, le relazioni diplomatiche formalmente interrotte continuarono in via riservata. Nel 1994 – era in carica il democratico Bill Clinton – la situazione sembrava normalizzata e, nonostante qualche critica sempre sul rispetto dei diritti umani, la Cina vide confermata la sua posizione di partner commerciale alleato con elevato interscambio commerciale.
Nel 1998 salì però la tensione: dopo la visita l’anno prima del presidente cinese Jiang Zemin ad un’industria elettronica americana e la fornitura di tecnologie informatiche, satellitari, nucleari e missilistiche, riemersero nei confronti della Cina accuse di spionaggio risalenti al 1995. I risultati dell’inchiesta parlamentare non diedero seguito a procedimenti giudiziari, ma le industrie americane Hughes Electronics e Lorane Space furono pesantemente multate per ‘violazioni delle norme sulle esportazioni’.
La Cina rimase tuttavia ancora tra i partner commerciali e gli scambi continuarono con reciproche soddisfazioni: nel 2001 furono infatti gli Stati Uniti a caldeggiare l’ingresso della Cina nell’Organizzazione del Commercio Mondiale (WTO) inserendo più di quattromila prodotti asiatici, ma ottenendo anche il loro accesso in Cina al mercato bancario, assicurativo e delle telecomunicazioni.
La presidenza Obama mantenne sempre un atteggiamento flessibile nel confronti del gigante asiatico: da una parte confermandone il ruolo privilegiato, continuando cioè come prima lo scambio commerciale e la cooperazione, e dall’altra formulando una dottrina sulla sicurezza asiatica poco gradita a Pechino. La risposta cinese fu la paziente tessitura di una rete di accordi bilaterali per incrementare i commerci (Hong Kong, Taiwan, l’organizzazione del Sud-est Asiatico e il Sudafrica).
Il ‘botto’ avvenne nel 2013: non solo il volume complessivo del commercio cinese superò quello americano, ma il nuovo presidente Xi Jinping lanciò anche il progetto di un nuovo ordine geo-economico globale destinato a fare della Cina un protagonista del XXI secolo. Da qui le origini del conflitto che ha visto in prima linea Trump e Xi Jinping, un conflitto che, nonostante l’attuale assenza di Trump, non ha ancora visto un armistizio stabile.