«Situazione gravida di tensione», è la formula diplomatica che si ripete dalla ‘guerra umanitaria’ della Nato nel 1999 e della dichiarazione unilaterale d’indipendenza di Pristina dal 2008, e che descrive la situazione del Kosovo, tra cacciata della minoranza serba, assalti ai monasteri ortodossi e impotenza Nato di sospetta complicità.
Il ritorno degli scontri armati. Nella notte tra sabato e domenica nel villaggio di Banjska, vicino a Zvecan, nel nord del Kosovo, ‘enclave’ a maggioranza serba, la polizia albanese era intervenuta per rimuovere un blocco stradale eretto dalla popolazione serba locale, per una protesta che va avanti da molti mesi contro la politica discriminatoria delle autorità di Pristina, come riconosce ormai anche l’Amministrazione Usa. Ma contro gli agenti si è sparato, uno di loro è rimasto ucciso e due feriti.
Protagonista – per i media kosovaro albanesi – un gruppo di una trentina di rivoltosi serbi armati con passamontagna e addirittura un «autoblindo». Una vera e propria azione di guerra, nel racconto, molto forzato. La ‘battaglia’ sarebbe continuata per tutta la giornata dopo che i rivoltosi si sono asserragliati nel vicino monastero ortodosso di Banjska.
Le forze kosovaro-albanesi sono penetrate nel monastero dopo avere ucciso tre rivoltosi serbi e catturati sei. Le autorità religiose del monastero avevano denunciato il pericolo per l’incolumità di fedeli e turisti arrivati dalla Serbia.
La presidente kosovara Vjosa Osmani ha proclamato una giornata di lutto nazionale in memoria di Afrim Bunjaku, il poliziotto ucciso. Il premier Albin Kurti ha accusato Belgrado di sostenere «formazioni armate e criminali serbe nel nord del Kosovo» e di «attacco terrorista alla sovranità kosovara». Il presidente serbo Aleksandar Vucic, pur condannando l’uccisione del poliziotto, ha addossato invece a Kurti la responsabilità dell’accaduto: «è il risultato della sua politica di terrore fortemente antiserba».
Versione politica serba con qualche dubbio simile a livello internazionale. «L’unico responsabile per quanto sta accadendo è Kurti, con l’aiuto della comunità internazionale», ha dichiarato Vucic, secondo cui la leadership kosovara vorrebbe un nuovo conflitto tra la Serbia e la Nato. E l’alto rappresentante per la politica estera Ue, Josep Borrell, in parte conferma il sospetto con le dichiarazioni di circostanza.
«Violenza inaccettabile in ogni forma» (repressione poliziesca compresa), è il commento più attento dell’inviato speciale dell’Ue per il dialogo Belgrado-Pristina Miroslav Lajcak: «tutti devono tornare immediatamente al dialogo». Anche la missione Kfor-Nato che non previene, condanna.
Poco più di una settimana fa erano nuovamente falliti i colloqui tra Kurti e Vucic patrocinati dall’Ue con il respingimento da parte di Kurti delle due proposte di mediazione accettate dalla Serbia: nuove elezioni nel Nord-Kosovo nei comuni serbi che -dopo l’astensione di protesta della maggioranza serba- avevano subito l’imposizione di sindaci albanesi votati da poche decine di elettori. Forzatura politica condannata perfino dal segretario di Stato Usa Blinken e dall’Ue Borrell.
«Ora il Kosovo sembra rientrare nello Scenario ucraino», segnala allarmata Ester Nemo sul Manifesto. Per il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, «Mosca segue la situazione nel Kosovo che è estremamente difficile e potenzialmente pericolosa», E a Bruxelles è stato subito convocato ieri un incontro fra gli inviati Ue e Usa, Miroslav Lajcak e Gabriel Escobar, con i consiglieri diplomatici di Francia, Germania e Italia. Forse decidendo una qualche forma di ‘sollecitazione’ su Pristina e sull’attuale governo kosovaro a guida Kurti.