
Gaza, manca il sostegno Usa per imporre la pace, e tutto l’Islam va in pellegrinaggio in Cina. I Ministri della ‘Organizzazione della cooperazione islamica’, «La voce collettiva del mondo musulmano in Cina per cercare di porre fine alla guerra», segnala Le Monde. Risoluzione concordata a Riad che sceglie tra Usa e Cina. E contano le ‘firme’ dei governi: Arabia Saudita, Giordania, Egitto, Qatar, Turchia, Indonesia, Nigeria, e Palestina, a cercare di coinvolgere in un tentativo di mediazione proprio la Cina.
Come scrive, con grande evidenza, il South China Morning Post, la delegazione islamica sarà di alto livello. Presentando l’incontro, il portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, ha riassunto gli obiettivi quasi scontati che sfuggono e non sono comunque raggiunti/imposti da altri protagonisti internazionali: «raffreddamento dell’attuale conflitto israelo-palestinese, la protezione dei civili e una giusta soluzione della crisi». Scontato ma per ora, apparentemente impossibile. Ma il colosso asiatico lavora sottotraccia, in Medio Oriente, da molto tempo, con relazioni amichevoli con tutti i Paesi della regione.
Pechino ha sempre avuto un buon rapporto con i palestinesi. Con tutte le espressioni politiche del complesso mondo palestinese. E gli analisti ricordano che, nel 2014, Wang Yi, l’attuale ministro degli Esteri, aveva incontrato a Doha, in Qatar, anche l’ex leader di Hamas, Khaled Mashal. Dopo essere stato richiamato in carica da Xi Jinping, Wang ha sviluppato la sua nuova geopolitica, di ‘inserimento progressivo’ nella diplomazia della regione compresa tra Suez e il Golfo Persico.
«La reazione di Israele è andata oltre l’autodifesa», denuncia il ministro Wang. Non solo, ma come fa notare il South China Morning Post, non aveva condannato l’attacco di Hamas e non ha definito il gruppo nemmeno ‘organizzazione terroristica’.
Problemi cinesi con Israele? Cinesi e israeliani sono anche maestri di ‘realpolitik’. Le relazioni commerciali tra loro sono eccellenti e questo mette tutti d’accordo. La Cina è il primo fornitore di Israele (18,1% dell’import) e il secondo cliente, con quasi l’8% di esportazioni ad alto valore aggiunto che viaggiano verso Pechino. In definitiva, poi, la straordinaria capacità dei cinesi di ‘parlare con tutti’, può trasformarsi in un’ottima sponda per le ‘triangolazioni’ diplomatiche di Tel Aviv. Insomma, sotto la vernice della retorica negativa di facciata, spuntano comuni ‘interessenze’. Per questo non va sottovalutato il ruolo, se non di mediazione, almeno di ‘camera di compensazione’, che può avere il Ministero degli Esteri cinese.
Diverse e più insidiose possono essere le ricadute per la politica estera americana. Quella presa dalla Conferenza per la Cooperazione Islamica, a Riad, è una decisione che fa riflettere. Si tratta di una svolta significativa che, se da un lato premia la paziente opera di ricostruzione della ‘geopolitica mediorientale’ di Wang Yi, dall’altro evidenzia le crescenti difficoltà diplomatiche degli Stati Uniti nella regione. Come sempre più spesso avviene, negli ultimi anni, la Casa Bianca ha sottovalutato l’impatto di alcune sue decisioni di ‘foreign policy’. Ritrovandosi, poi, a dover fronteggiare reazioni impreviste, anzi, veri e propri scossoni del quadro geopolitico internazionale, tali da minarne i già fragili equilibri esistenti.
Gli alleati mugugnano e alcuni, come la Francia, escono allo scoperto, chiedendo che s’interrompa quella che ormai appare al mondo come una strage ingiustificabile. Il Sud del mondo si è ricompattato con i ‘non allineati’ e con il blocco islamico. Le società occidentali sono spaccate e lo stesso Partito Democratico americano, dopo l’ultima presa di posizione di Bernie Sanders, si sta frantumando.
E l’Onu? È il capitolo più doloroso. Sembra che, improvvisamente, non conti più niente. Nonostante fino a qualche mese fa, nei salotti buoni dell’Occidente, ci si appellava al ‘diritto internazionale’ e a quello ‘umanitario’. Ma sin parlava di Ucraina e contro la Russia. Oggi, proprio richiamandosi a quelle formulette che in Europa non si sentono ripetere più, a Pechino i rappresentanti di due miliardi di mussulmani vanno a chiedere l’applicazione del ‘diritto umanitario’ per Gaza. Certo, difficile capire come si batteranno anche per gli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas. Perché, da quello dipende tutto il resto. Liberati gli ostaggi, per Netanyahu sarà più difficile giustificare una guerra infinita. E anche per gli Stati Uniti.
Usa ostinati a coprire evidenti errori strategici dell’attuale premier israeliano, fino al punto di confondere il sacrosanto diritto all’autodifesa e alla sicurezza nazionale, con la volontà di un premier screditato a condurre una indiscriminata rappresaglia a fini di consenso politico interno.
Basta leggere i giornali liberal israeliani, i più illuminati come Haaretz, per rendersi conto che molti dei problemi attuali più gravi dello Stato ebraico nascono dalla sua profonda crisi istituzionale. In futuro, quando dopo la cronaca, si scriverà la storia di questa guerra, forse verranno a galla molte sorprese.
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