Sempre più spesso, nel bene e nel male, i fatti di oggi riportano alla memoria episodi in qualche modo simili del passato. «All the News That’s Fit to Print»: sette parole in inglese, probabilmente le più famose del giornalismo, le vedevo tutti i giorni sulla prima pagina, in alto accanto alla testata, sulla copia del New York Times che mio padre portava a casa nel Bronx quando tornava dopo un’intensa giornata di lavoro a Manhattan. «Tutte le notizie che possono essere stampate».
Dal febbraio 1897, il motto non si è più mosso dalla prima pagina del quotidiano e da anni, come scrisse qualche anno fa un docente universitario americano, «è ammirato come una dichiarazione di intenti senza tempo, è stato interpretato come un ‘grido di guerra’ per l’onestà del giornalismo e preso in giro come pretenzioso, esagerato e incredibilmente vago».
Crescendo e imboccando il mestiere del giornalista cercavo di adeguare il mio comportamento alle interpretazioni positive di quelle sette parole anche mentre vedevo sempre di più che spesso, troppo spesso, le nostre interpretazioni dei fatti non corrispondevano necessariamente alla realtà. E, soprattutto, il giornale newyorkese, come la maggioranza dei quotidiani del mondo, non sempre si interessava dei fatti che valeva la pena raccontare e non sempre quelli che raccontava valeva la pena leggere.
Il bambino-ragazzo innamorato di un mestiere era cresciuto. Ed erano cresciuti anche i termini, gli aggettivi, le parole usate per descrivere fatti e persone. Come quando – piccola cosa forse – il mio primo direttore mi criticò quando scrisse la storia di un «vecchio ammazzato e trovato per strada». «Non si dice vecchio – disse – la parola giusta e che non offende nessuno è: anziano».
Molti giornali hanno a disposizione dei redattori un dizionario-decalogo con le parole da usare e quelle bandite perché scorrette o disturbanti. L’altro giorno, un noto gruppo di lavoro statunitense formato da giornalisti indipendenti, «The Intercept», ha denunciato una specie di decalogo interno del NY Times che impone ai suoi dipendenti di usare alcune parole e altre no, di raccontare alcune verità e altre no.
Il motto di ‘The Intercept’ è forse presuntuoso ma chiaro: «Indaghiamo su individui e istituzioni potenti per esporre la corruzione e l’ingiustizia. Vediamo il giornalismo come uno strumento di azione civica. Siamo qui per cambiare il mondo, non solo per descriverlo».
«È il genere di cose che sembrano professionali e logiche se non si ha conoscenza del contesto storico del conflitto israelo-palestinese».