Ieri, quasi a sorpresa, è sbarcato a Kiev il Ministro degli Esteri israeliano, Eli Cohen, in visita semi-ufficiale. Ha incontrato il suo omologo Dmytro Kuleba e, soprattutto, il Presidente Zelensky. Una mossa che, fino a qualche mese fa, sarebbe stata difficilmente pronosticabile, visto l’atteggiamento ‘ di ‘non interferenza’ assunto da Israele sulla guerra in corso in Ucraina. I due governi precedenti (quelli guidati da Bennett e poi da Lapid, per capirci) avevano condannato, è vero, l’invasione russa, ma senza sforzarsi troppo. Nessun aiuto militare, come chiedevano l’Ucraina e gli altri alleati occidentali, era mai partito da Gerusalemme. Solo parole di solidarietà, qualche sostegno sanitario e, in generale, di assistenza “umanitaria”. Realpolitik allo stato puro, insomma. E dopo vedremo il perché.
Adesso, invece, Netanyahu, ridiventato per l’ennesima volta premier israeliano, ha capovolto (all’apparenza) i termini dell’equazione strategica, fin qui seguita dallo Stato ebraico. Tutto si tiene per mano e, mai come in questo momento, la politica internazionale influenza gli affari domestici delle democrazie. E viceversa. Dunque, se ‘pecunia non olet’, a maggior ragione non puzza la ricerca del potere, comunque esso arrivi. Gli ucraini hanno bisogno di armi e sostegno finanziario. Biden ha bisogno di avere alleati affidabili ed efficienti, come Israele. Mentre Netanyahu, sotterrato dai problemi giudiziari in patria, cerca una sponda di ‘comprensione’ proprio nella Casa Bianca, ma senza inimicarsi troppo la Russia.
Una diplomazia ‘parallela’ da funamboli, con margini di errore strettissimi. Al di là dei proclami roboanti e delle belle intenzioni, come scrive il Jerusalem Post, la Casa Bianca ha chiesto a Israele di fare da ‘corriere’ o, comunque, di mettere a disposizione dell’Ucraina molte delle armi pesanti, munizioni e missili Usa che si trovano stoccati nei depositi della Terra Santa. Si tratta di un vero arsenale, della polveriera che gli israeliani custodiscono, come abbiamo già detto, per conto degli americani, in caso di conflitto in Medio Oriente. La sopravvivenza politica di Netanyahu, quindi, potrebbe essere co-determinata dalla capacità di assecondare gli Stati Uniti, senza però pregiudicare le relazioni con Putin.
Ancora lo scorso ottobre, Gerusalemme ha detto di no alla possibilità di cedere alle forze armate di Zelensky il sistema missilistico antiaereo ‘Iron Dome’, basato sulle batterie dei ‘Patriot’. Ora, però, le cose potrebbero cambiare. Intanto, il Ministro Cohen si è impegnato a cedere, ‘entro tre-sei mesi’ un apparato d’allarme per la sicurezza dei cieli ‘a uso civile’. Cioè, un sofisticato radar di scoperta aerea che, non c’è bisogno di spiegarlo, ha prima di tutto impieghi bellici. Cohen, poi, ha promesso a Kuleba anche un prestito di 200 milioni di dollari, da impiegare nel settore sanitario.
Come scrive il quotidiano Haaretz, Zelensky invece vorrebbe un prestito di almeno mezzo miliardo di dollari e una cessione più estesa di sistemi d’arma antiaerei. Si parla, oltre ai Patriot, di ‘Light Shield’, ‘Barak8’, ‘David’s Sting’ e ‘Arrow’. Tempo addietro, ma la notizia non è confermata, sembra che siano stati chiesti anche i temibili carri armati ‘Merkava’. Comunque sia, a sentire la stampa israeliana, Cohen si sarebbe spinto fino al punto di promettere il suo appoggio alla risoluzione sul piano di pace, che Zalensky dovrebbe presentare la settimana prossima alle Nazioni Unite.
Adesso bisognerà vedere come il Cremlino giudicherà il giro di valzer di Netanyahu. Indubbiamente, il repentino cambiamento potrebbe essere stato determinato anche dalla ‘saldatura’ strategica tra Mosca e Teheran. Il fatto che i negoziati di Vienna, sul nucleare iraniano, siano finiti su un binario morto, può significare che l’area di crisi sviluppatasi nell’Europa centro-orientale d’ora in poi avrà ricadute sempre più pesanti, anche nel Medio Oriente e nel Golfo Persico.
A dimostrazione del fatto che, più dura la guerra alimentando l’afflusso di armi e maggiori sono i rischi di un allargamento incontrollato del conflitto. Che potrebbe finire per coinvolgere Paesi non direttamente interessati, ma comunque obbligati a schierarsi, senza che però si vogliano percorrere opzioni diplomatiche praticabili.
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