
Ieri, la BCE ha deciso per un rialzo di mezzo punto del tasso di riferimento sui prestiti principali, portandolo al 3%. La mossa segue quella della Bank of England (anche qui 0,50% per arrivare al 4%) e, soprattutto, quella della Federal Reserve americana, che mercoledì ha optato per un ritocco di soli 25 punti base (fino al 4,50%). Vista la complessità della situazione economica e finanziaria internazionale, non sono tanto e solo i numeri a dettare le riflessioni, quanto piuttosto le analisi con le quali i “banchieri centrali” accompagnano le loro scelte. Si tratta di veri e propri “outlook”, previsioni che non riguardano solo l’imprevedibile andamento dell’inflazione, ma che toccano anche gli aspetti macroeconomici dei diversi mercati.
Come al solito, la locomotiva del convoglio finanziario internazionale, quella che si tira appresso tutti gli altri vagoni, cioè la FED di Washington, ha fatto da apripista, con un rialzo più lieve del previsto. Il discorso del Presidente, Jay Powell, è stato un capolavoro di equilibrismo, dove non sono mancate note ottimistiche, ma su uno sfondo che rimane francamente problematico. “Saremo cauti nel dichiarare la vittoria – ha detto tra le altre cose Powell – e nell’inviare segnali che facciano pensare che la partita contro l’inflazione sia vinta. Perché abbiamo ancora molta strada da fare”.
In effetti, la politica di restrizione monetaria, cominciata con largo anticipo dalla FED, inizia a dare i suoi frutti e ha portato a un rallentamento nel ritmo del rialzo dei tassi. Cosa che, per ora, non avviene alla BCE. I vertici dell’Istituto di Francoforte hanno anticipato che la politica di disinflazione continuerà anche a marzo, con un ulteriore prevedibile rialzo di altri 50 punti base. Per tutto il 2023 si attuerà un monitoraggio costante sull’andamento dei prezzi, per valutare se e quando l’inflazione invertirà la tendenza, per dirigersi verso il tanto agognato 2% fissato dalle autorità monetarie. Tutto ciò in linea con l’inversione ‘a U’ fatta, da novembre in poi, dalla Presidente, Christine Lagarde, che messo da parte l’ottimismo di maniera ha detto, chiaro e tondo, che la BCE avrebbe cominciato una politica rialzista dei tassi molto dura. Dopo avere sfondato l’inflazione a due cifre nell’Eurozona, un rallentamento economico transitorio, agli occhi dei nostri banchieri centrali, paradossalmente avrebbe potuto dare una mano nel calmierare i prezzi.
Ma, come scrive il Financial Times, “l’economia della zona euro si è dimostrata più resiliente del previsto, aiutata dal clima più mite e dal sostegno dei governi per aiutare le famiglie le imprese a far fronte all’aumento delle bollette energetiche”. Insomma, è andata meglio del previsto e nelle tasche dei consumatori sono rimasti più soldi per alimentare la domanda. E anche per alimentare l’inflazione. Che è sì scesa, dal 9,2 all’8,5%, ma che sottoposta un’attenta analisi disaggregata mostra caratteristiche preoccupanti. Perché l’inflazione di fondo dell’Eurozona, quella definita “core”, calcolata al netto di prodotti alimentari ed energia, è rimasta ancorata al 5,2%. Un brutto segnale, che tradotto in termini pratici significa che il rallentamento nell’impennata dei prezzi potrebbe essere solo temporaneo.
Questo è il motivo per cui soprattutto i rappresentanti tedeschi della Bundesbank hanno avuto gioco facile, dentro il ‘board’ della BCE, a imporre il loro punto di vista. Cioè, un rialzo di almeno 50 punti base che ne annuncia un altro di uguale entità nel mese di marzo. In questo modo, si cercherà di chiudere il differenziale nei tassi di interesse con le altre banche centrali, a partire dalla FED e a difendere il cambio dell’euro con il dollaro.
Inoltre, e questa è una notizia che interessa purtroppo anche l’Italia, molto presto la BCE acquisterà meno obbligazioni con i proventi derivanti dai titoli in scadenza che possiede. La notizia era attesa, ma l’euro ha perso lo stesso lo 0,15% nei confronti del dollaro. Collateralmente, il rendimento del Bund tedesco a 10 anni è sceso al 2,16%, mentre l’analogo BoT italiano è calato dello 0,23%, fissandosi al 4,05%.
Tutto questo a dimostrazione che l’economia finanziaria è fatta non solo di numeri, ma spesso di dichiarazioni che alimentano le aspettative. Che a loro volta influenzano altri numeri, in una sorta di mantra perpetuo, dove la logica scompare e le crisi diventano inspiegabili.