Il dramma palestinese tra i nazionalismi arabi: Libia e Arabia Saudita

Avevano iniziato due settimane fa a raccontare della diaspora palestinese e del resto del mondo arabo. Un rapporto complesso e spesso tormentato. Dopo la costituzione dello stato di Israele e dopo il primo conflitto arabo-israeliano del 1948, con centinaia di migliaia di profughi palestinesi che ripararono nei vicini paesi arabi. La Nakba, la tragedia. Da allora, campi profughi palestinesi sparsi in Medio Oriente, molto spesso non graditi dagli altalenanti nazionalismi ospiti. Avevamo scritto della fragilità della Giordania e del ‘settembre nero’ e del campo di Yarmuk in Siria. Poi Egitto e Libano. Oggi, terza puntata le ulteriori complessità da scoprire in Libia ed Arabia Saudita.

King Abdullah, Who Nudged Saudi Arabia Forward, Dies at 90

L’era del colonnello

Nel 1948 in Libia non si verificò un afflusso di profughi palestinesi paragonabile a quello dei paesi direttamente confinanti: il paese nordafricano del resto, retto dalla monarchia senussita di re Idris, in quel periodo non era ancora caratterizzato da un significativo sviluppo economico, né esercitava una particolare attrazione. Le cose cambiarono radicalmente dopo l’avvento al potere del colonnello Gheddafi nel 1969, ossia due anni dopo la guerra dei Sei giorni che a sua volta aveva spinto altri palestinesi a cercare rifugio altrove.
Volendo assumere un ruolo guida tra i paesi arabi e ispirandosi alla figura di Nasser, Gheddafi utilizzò la questione palestinese per la propria politica personale, ma non migliorarono automaticamente per questo le condizioni dei profughi. A partire dagli anni Settanta cominciarono robusti finanziamenti all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Yasser Arafat, ma progressivamente ne beneficiarono anche le organizzazioni più estremiste che si stavano staccando dall’OLP e che presto entrarono in dissidio.
Quando nel 1992 l’aereo sul quale viaggiava Arafat precipitò in pieno deserto del Sahara, Gheddafi organizzò i soccorsi con grande spiegamento di forze e si presentò al mondo come il salvatore del capo dell’OLP: nonostante le foto scattate in un ospedale libico facessero pensare a uno stretto legame, in realtà i rapporti tra i due erano già in crisi da tempo.

Gli ultimi dimenticati nel deserto

Al momento del crollo del regime nella primavera 2011 i palestinesi residenti Libia erano circa settantamila, la stragrande maggioranza dei quali priva di documenti. Alcuni erano favorevoli al regime, ma la spinta delle primavere arabe cambiò l’atteggiamento di molti. La loro sorte fu assai simile a quella della popolazione civile libica che fuggiva sotto i bombardamenti occidentali o dalla furia dei mercenari di Gheddafi cercando scampo in Tunisia o in Egitto, con la sola la differenza che ai palestinesi fu negato l’accesso in Egitto per porsi al sicuro.
Nel frattempo, poiché un gruppo di studenti palestinesi era stato arrestato dalla polizia di Gheddafi, cominciò una persecuzione generalizzata e gli arresti si moltiplicarono. A marzo circa millecinquecento palestinesi tentarono di passare il valico di frontiera di Sollum, ma l’esercito egiziano li respinse.
Sebbene in apparenza potesse sembrare una chiusura dei confini dovuta alla guerra, in realtà in quelle stesse giornate l’Egitto accolse centinaia e centinaia di lavoratori asiatici privi di documenti. Non fu migliore la sorte di coloro i quali erano usciti indenni dalla breve guerra: il nuovo regime li considerò con sospetto costringendo una parte alla fuga verso l’Europa.

Il rifiuto del visto

Nel 2017 avvenne un fatto ci una certa gravità che non contribuì a distendere i rapporti tra i profughi palestinesi e l’Arabia Saudita: il governo saudita non concesse più i visti per compiere il tradizionale pellegrinaggio alla Mecca e agli altri luoghi sacri ai profughi palestinesi residenti in Libano. Secondo Riyadh i visti per entrare nel paese sarebbero stati apposti solo su passaporti rilasciati dall’Autorità Palestinese e non più sui cosiddetti ‘documenti di viaggio’ (ovvero una sorta di passaporto provvisorio) rilasciati dal Libano ai palestinesi che del resto – privi di cittadinanza – non potevano esibirne altri.
I sauditi avevano insomma lanciato la palla nel campo dell’Autorità Palestinese che aveva risposto seccamente di non aver preso alcuna decisione. La controversia fece però riemergere la presenza in Libano di oltre centosettantamila palestinesi – secondo i dati dell’Autorità – di fatto esclusi dalla vita politica del paese e sui quali incombeva anche il divieto di esercitare alcune professioni come il medico o l’avvocato.
La questione si estese a macchia d’olio quando fu comunicato da Riyadh che non sarebbero stati concessi visti d’ingresso neppure agli oltre seicentomila profughi palestinesi in Cisgiordania che si trovavano nella stessa situazione: potevano esibire infatti un documento provvisorio giordano, ma non un vero passaporto, in quanto privi di cittadinanza. Dopo pressioni di altri paesi arabi, la decisione fu poi mitigata, ma maliziosamente ci fu chi intravide nel provvedimento saudita l’avvio di una sorta di pulizia etnica ‘amministrativa’.

La propaganda saudita

Recentemente, prima degli sconvolgimenti in corso, l’Arabia Saudita è stata criticata anche per la diffusione di alcuni argomenti destinati a ridurre l’attenzione della propria opinione pubblica nei confronti dei palestinesi: il metodo è conosciuto e consiste nel mescolare fatti veri ad altri che lo sono molto meno. La stampa ha riportato ad esempio le foto risalenti all’incontro tra Arafat e Saddam Hussein svoltosi prima dell’invasione del Kuwait, ma omettendo il fatto che Arafat dopo la guerra si recò appositamente nello stato arabo per esprimere le sue scuse e il suo rammarico per l’invasione subita.
Un secondo tema riguarda l’insistenza nel rimarcare le divisioni interne, legate alla litigiosità tipica dei palestinesi, che avrebbero provocato l’ascesa di Hamas. Terzo caso il tentativo di ‘riscrittura’ della vicenda di Settembre Nero che, nella versione saudita, si opponeva alla Giordania – che aveva bombardato i campi profughi – e non contro Israele.
Ribadite dalla televisione, queste argomentazioni hanno iniziato a circolare, incontrando però perplessità nel potente e conservatore clero saudita. Il dramma di Gaza ha segnato tuttavia una battuta d’arresto riportando la questione palestinese nelle discussioni all’interno del regno.

Condividi:
Altri Articoli
Remocontro