La solitudine d’Israele senza un piano per il dopo-Gaza

Sradicare Hamas da Gaza è l’obbiettivo annunciato da Israele, l’illusione di poter sostituire il movimento islamico con la moderata Autorità palestinese di Abu Mazen, mentre un governo di provocatori folli sembra fare il possibile per dare ad Hamas il dominio politico anche della Cisgiordania rubata dai coloni. 300 mila riservisti mobilitati per quanto tempo, per arrivare a cosa e a quale prezzo?

«BibiNetanyau ha costituito un governo nazional-religioso che minaccia gli interessi americani nella regione. A fatica Hamas, Hezbollah e Iran riescono a fare più danni all’America».

La differenza morale e quella dei numeri

Alla fine qual’è la differenza morale fra uccidere una donna e i suoi figli con un fucile mitragliatore di Hamas o con una bomba d’aereo israeliano, aveva chiesto sulla Cnn a Christiane Amanpour, la regina Rania di Giordania. Ed è quello che si chiede una crescente parte del mondo, segnala Limes.

Per Israele la ferocia dall’attacco diventa una lotta contro il tempo fra l’illusione di chiudere radicalmente con Hamas e il dove cedere, prima o poi, alle sempre più diffuse pressioni internazionale perché fermi l’offensiva, accetti una tregua sufficientemente lunga per negoziare e realizzare la liberazione degli ostaggi e chi sa ancora cos’altro. Peccato che il ‘cosa volere’ ora e il ‘come ottenerlo’ (adesso e per il futuro) non lo sappiano bene neppure a Gerusalemme.

Isolamento, e gli Usa non bastano

La risoluzione dell’Assemblea Onu per una tregua umanitaria ha avuto 120 voti a favore, 14 contrari e 45 astenuti. Nessun effetto pratico, enorme valore politico e morale. Tanto da costringere l’ambasciatrice americana Linda Thomas-Greenfield a giustificare il voto contrario alla mozione presentata dai paesi arabi con tante belle parola a favore del futuro palestinese del forse o del mai, mentre Israele rischia di trascinare in una guerra regionale il suo alleato indispensabile.

Negri: ‘C’era una volta l’America’

Realista e categorico Alberto Negri che nel suo blog titola ‘C’era una volta l’America’. «Fu George Bush senior a imporre a Yitzhak Shamir, premier ultra-conservatore del Likud, la conferenza di pace di Madrid, minacciando di tagliare gli aiuti economici se Israele non avesse sospeso la costruzione di colonie nei Territori occupati: ‘per ogni mattone posato, un dollaro in meno’». C’era una volta l’America, prima di Biden e di Trump, le due facce della stessa moneta in precipitosa svalutazione.

C’era una volta l’America, costretti persino a citare il Bush dei tempi di Reagan, ma soprattutto un’altra Israele. Con Bibi Netanyahu che ha strappato all’amicone Donald e al suo genero Kusner la fine dell’accordo sul nucleare iraniano, ha ignorato gli appelli a riconoscere i diritti palestinese e ha reso carta straccia, come decine di risoluzioni Onu, anche il pretenzioso Patto d’Abramo, divenuto ora impraticabile per qualsiasi Paese arabo.

Gran finale di catastrofe politica, come cita Ugo Tramballi, «Bibi ha costituito un governo nazional-religioso che minaccia gli interessi americani nella regione. A fatica Hamas, Hezbollah e Iran riescono a fare più danni all’America».

Orgoglio e presunzione

Calcolo esemplificato nelle dichiarazioni del gabinetto di guerra israeliano: «Negli ultimi dieci anni il Medio Oriente ci ha guardato con ammirazione. Siamo stati gli unici a sfidare l’Iran. Abbiamo contribuito in modo determinante alla sconfitta dell’Isis. Le Idf hanno operato pressoché in ogni angolo del Medio Oriente e oltre, producendo successi formidabili. Poi, improvvisamente, arriva una piccola organizzazione terroristica. E tutti, dal Cairo ad Amman, da Abu Dhabi a Riyad, da Beirut a Teheran, stanno drizzando le antenne. Dobbiamo dimostrare loro che siamo ancora una superpotenza regionale».

Dimostrazione che tra Tel Aviv e Gerusalemme la confusione regna sovrana, e che pochi ai vertici hanno capito che per gli Stati Uniti (e pure per quel poco di Europa che ancora frequenta l’analisi geopolitica), vale l’esatto opposto da quanto vantato dall’Idf bastonato e in cerca di riscatto. «Washington condivide l’ambizione israeliana di ristabilire la dissuasione perduta. Ma teme che il prezzo possa rivelarsi troppo elevato», sottolinea Limes. E le cronache più attente ci dicono di ‘pianificatori americani’ che hanno domandato alle controparti israeliane di abbandonare l’idea di un assedio totale della Striscia.

Senza un dopo Gaza accettabile, Israele ha perso comunque

E alla terza settimana di reazione militare, Gerusalemme sta forse prendendo atto che la vittoria non si deciderà soltanto sul campo di battaglia. Altrettanto determinante sarà la capacità israeliana di elaborare un piano realistico per la fine del conflitto, immaginare il ‘giorno dopo’, lo scenario finale non solo per Gaza, ma per l’intera regione. Rioccupare la Striscia, come richiesto da alcuni esponenti del Partito sionista religioso, sarebbe disastroso, la valutazione internazionale più seria.

Ma, rubiamo da Ugo Tramballi la conclusione allarmante che la situazione impone: «Nel 1914 neanche re e imperatori europei volevano perdere il trono e far morire in trincea 20 milioni di uomini. Il Kaiser, lo Zar e il re inglese erano anche cugini, nipoti della regina Vittoria. Poi ci fu l’attentato di Sarajevo».

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