Nella scala delle priorità di Israele, la distruzione di Hamas precede l’elaborazione di un progetto per il dopo-offensiva credibile e accettabile per una sempre più larga parte di mondo sempre meno accondiscendente su non soluzione decente della questione palestinese. Per gli Stati Uniti sembra valere l’opposto. Washington vorrebbe riaffermare la potenza dei suoi alleati chiave nell’area ma teme che il prezzo possa essere troppo alto, sino a coinvolgerla direttamente, come denuncia Piero Orteca nel pezzo precedente.
Rinvio d’attacco anche ad uso militare statunitense a difesa delle sue molte basi militarti nell’area, ma comunque un’operazione militare israeliana all’interno della Striscia di Gaza lunga e sanguinosa nel difficile obiettivo di eliminare i circa 25 mila combattenti di Hamas, Jihad Islamica Palestinese e altre milizie minori palestinesi.
Da un sondaggio del Lazar Institute il 65% degli israeliani si dice d’accordo su un’operazione di terra nella Striscia di Gaza (contrario il 21%). E il 51% delle persone interpellate, riferisce Analisi Difesa, è favorevole a un’operazione su vasta scala contro Hezbollah sul confine libanese (il 30% vorrebbe un’operazione ‘contenuta’). Infine il 49% ritiene che il miglior premier sarebbe Benny Gantz contro il 28% di Netanyahu.
La reazione dello Stato Ebraico ha già bloccato il processo di pacificazione e riavvicinamento tra Israele e molte nazioni arabe, e Israele sta chiudendo diverse ambasciate in Medio Oriente, incluse quelle in Turchia, Bahrein, Giordania, Marocco ed Egitto, ma sarebbero almeno 20 le sedi diplomatiche destinate a chiudere o ridurre al minimo organici e attività.
Europa politica e i suoi media appiattiti su posizioni filo-israeliane mentre nel mondo arabo e tra i non allineati reazioni opposte. Stati Uniti ed Europa mediatori non credibili e impedire l’allargamento del conflitto a Siria e Libano. E c’è già chi, lungimirante, immagina un vicino disastro energetico per l’Europa, che dopo aver chiuso col gas russo, conta sulle le forniture nordafricane schierate tutte con la causa palestinese.
Pessimi intenti. Il ministro degli Esteri israeliano, Eli Cohen: «Alla fine di questa guerra, non solo Hamas non sarà più a Gaza, ma anche il territorio di Gaza diminuirà». Mentre il leader dell’opposizione, Yair Lapid, propone il ritorno nella Striscia dell’Autorità Nazionale Palestinese. Forse un po’ meno corrotta e un po’ più efficiente.
Stati Uniti appiattiti sulla difesa di Israele, mentre il presidente Biden mette sullo stesso piano Hamas e la Russia come ‘minacce alla democrazia’. Tensioni interne Usa, sino alle dimissioni di Josh Paul, diplomatico responsabile del Bureau of Political-Military Affairs del dipartimento di Stato per l’ulteriore sostegno militare ad Israele.
Europa politica, media e opinione pubblica si stanno spaccando tra quanti sostengono ogni iniziativa di Israele e quelli che ritengono sbilanciata la risposta militare dello Stato Ebraico. Lo sostengono 843 funzionari della Commissione e di altre istituzioni dell’Ue. Con Ursula von der Leyen che come Biden ha messo sullo stesso piano Russia e Hamas.
Rientra in scena in Medio Oriente una Russia in realtà mai scomparsa. «La Russia ha mantenuto ottime relazioni con tutto il mondo arabo e con Israele al punto che l’ambasciatore israeliano a Mosca ha dovuto smentire le illazioni ìin Europa e USA circa l’appoggio della Russia ad Hamas», sottolinea Giandomenico Gaiani. O Mosca o la Cina, già artefice di uno storico accordo tra Iran e monarchie sunnite del Golfo.
Scrive l’Economist, che «Ogni guerra israeliana viene combattuta guardando l’orologio». Il tempo breve dell’azione di forza rispetto al consenso internazionale.
La maggioranza nel mondo estremamente critica, e il dissenso anche sociale americano potrebbe ulteriormente spaccare il fronte interno al governo israeliano, già soggetto a una divisione nell’establishment militare oltre che politica oltre le micidiali durezze di Netanyahu, coloni in terra altrui e teocrazia di casa.