Ieri, tutti aspettavano non solo le decisioni della Federal Reserve americana, ma anche e soprattutto i commenti che accompagnano le scelte della Banca centrale più importante del pianeta. Segnali precisi, dei quali bisognerà tenere conto a ogni latitudine. “Finora non vediamo prove chiare che l’inflazione sottostante stia tendendo al ribasso”, ha detto la Presidente Bce. I prezzi dell’energia in calo s’incrociano col forte rialzo della domanda interna. alimentata da una corsa parallela, tra aziende e lavoratori, all’aumento dei profitti e dei salari.
Una sorta di ping-pong che si riversa a cascata sui prezzi e che non ha più molto a che fare con la guerra in Ucraina o con le tensioni geopolitiche. Insomma, quando l’inflazione è andata fuori controllo, come più volte abbiamo sottolineato, le autorità monetarie sono intervenute con colpevole ritardo. E adesso sono costrette a recuperare il tempo perduto, durante una congiuntura finanziaria sfavorevole.
Si teme, infatti, che la crisi bancaria americana, innestata dal fallimento di Silicon Valley Bank, possa avere degli effetti “pandemici” anche sul tessuto creditizio europeo. Come dimostrano le gravissime difficoltà che sta attraversando anche Credit Suisse. Abbiamo sempre scritto che “noi siamo ciò che decidono di farci essere le banche centrali”. Sono queste istituzioni il cuore pulsante del capitalismo contemporaneo, che poi si confronta con le bizze dei mercati, cercando di domarli o, peggio, quando le distorsioni coincidono con l’interesse di gruppo, perfino di cavalcarli.
Perché ogni crisi è figlia di qualcuno che, nella lunga catena degli scambi finanziari, ha rotto le regole per massimizzare i guadagni. Naturalmente, la presa di posizione della Lagarde solleverà altre polemiche. C’è già un “partito del debito”, che non condivide le scelte rialziste della Bce, perché colpiscono soprattutto chi, per cultura economica (e non per necessità) è abituato a finanziare la crescita attuale, scaricandola sulle spalle delle future generazioni. Ma, in questo caso, le quantità in ballo sono troppo amplificate e i tempi sono molto ridotti.
Questo è il motivo per cui il sistema globale è diventato instabile, passando da una crisi all’altra, alla ricerca dell’equilibrio perduto.
A congelare le speranze di chi si aspettava una rapida vittoria contro l’inflazione, ieri sono arrivati anche i dati britannici, che in genere anticipano il trend che si registrerà in Europa. Bene, a fronte di un rialzo dei prezzi ipotizzato al 9,9%, l’indice ha invece toccato uno sconfortante 10,4%. Rispetto alle previsioni, mezzo punto in più è un’enormità e rispecchia la sottovalutazione con cui anche la Bank of England sta affrontando il problema. Ergo: oggi, per gli inglesi, aumentare i tassi non sarà una scelta, ma una necessità.
Nonostante, ad esempio, il calo degli “energetici”, a pesare in maniera massiccia sui rialzi sono stati i prodotti di largo consumo, come gli alimentari, rincarati di oltre il 18%. Negativo, soprattutto, l’incremento del nocciolo duro dell’inflazione (“core”), quella più difficile da demolire, che si prevedeva al 5,7% e che invece ha toccato il 6,2%.
Riepilogando: l’inflazione non si sconfigge coi proclami, ma con scelte conseguenti, che non possono certo accontentare tutti. E ai politici che straparlano, forse bisognerebbe ricordare che il rialzo dei prezzi è una iniqua tassa “mascherata”, che colpisce soprattutto i cittadini più poveri.