Biden rilancia sull’Ucraina per paura della Cina nella guerra dei microchip

Gli F16 Usa all’Ucraina e ‘lo stallo coreano’, destinato a durare anni. Ucraina martire e Russia ed Europa prigioniere. Sembra un incubo e di rivela un progetto strategico politico statunitense per conservare il suo primato economico militare sul mondo. Anche a costo di dover ora arrotondare qualche spigolo con Pechino, perché non ci sono più i dollari soldi per un’altra guerra vera.
Meglio discutere e cercare qualche accordo sul futuro tecnologico del mondo attraverso i microchip da portare via da Taiwan

La lingua batte dove il dente duole

Nella conferenza stampa seguita al vertice del G7, il Presidente Biden ha voluto chiarire quale sia la sua maggiore preoccupazione attuale. Inquietudine quasi ossessiva, contenere la travolgente crescita economica della Cina e il suo oligopolio tecnologico in certe aree, come quella dei semiconduttori. Per la Casa Bianca, non è solo una ‘gara’ tra grandi potenze. Il colosso asiatico sta trasferendo velocemente, sul terreno geopolitico, tutti i successi del suo apparato produttivo e commerciale. E di questo passo, rischia di oscurare l’Occidente. Anzi, peggio, di tenerselo stretto a un guinzaglio: quello della catena di approvvigionamento globale dell’economia.

Cina ‘fabbrica del mondo’

La Cina sta diventando la ‘fabbrica del mondo’ (con l’India a seguire) e tutti gli altri Paesi cominciano a non poterne fare a meno. Ma questo l’America non lo permetterà afferma Biden. Quindi, occorre differenziarsi o, come dicono i tecnici, ‘disaccoppiarsi’. Per la verità, Biden, cercando di addolcire la sfida minacciosa, ha anche aggiunto che non è necessario arrivare a un ‘disaccoppiamento totale’. ‘Bisognerà vedere come vanno le cose’. In economia e in politica (se lui sarà ancora presidente, ad esempio). Perché, alla fine, la vera materia del contendere è, la leadership planetaria del modello culturale occidentale e la ‘unipolarità’ degli Stati Uniti, sempre più contestata.

Dopo il neo isolazionismo trumpiano

Biden, rispetto al neo-isolazionismo trumpiano, ha completamente rivoltato la geometria delle relazioni internazionali, obbligando, in un certo senso, l’Europa a seguirlo su questo terreno. Oggi, Washington gestisce in maniera assoluta, dettando le sue condizioni al resto dell’Occidente, le aree di crisi più scottanti. Dall’Ucraina al Mar cinese meridionale, passando dall’Africa al Medio Oriente, fino all’Indo-Pacifico.

‘Coercizione economica’

Biden ha sottolineato ripetutamente il termine ‘coercizione economica’, riferito a una presunta concorrenza sleale da parte della Cina. In effetti, il Presidente mischia verità (come la mancanza di garanzie per i lavoratori) a palesi insinuazioni, quando si riferisce, per esempio, a una sorta di ‘terrorismo geopolitico’, che sarebbe utilizzato da Pechino per convincere i Paesi più deboli a collaborare. Le realtà specifiche sono diverse e andrebbero studiate una ad una. Leggendo con attenzione l’intervento del Presidente, salta poi agli occhi un elemento ormai diventato il ‘core’ della sua posizione anti-cinese. E cioè, il dialogo nel campo scientifico e della ricerca. Gli Stati Uniti, adducendo motivi di ‘sicurezza nazionale’, hanno votato leggi molto severe sull’esportazione di tecnologia verso Pechino.

La conoscenza arma assoluta

In questo modo la ‘conoscenza’ diventa un’arma assoluta, per farsi una guerra non dichiarata. A ottobre scorso, per esempio, Biden ha fatto introdurre una norma che impedisce la vendita ai cinesi di ‘microchip di fascia alta’. Lo scontro commerciale più violento, con Xi Jinping, è cominciato nel 2018 all’epoca di Trump, con forti dazi doganali americani, determinato dal rosso della bilancia commerciale. Ma la cronicità del deficit dell’import-export Usa ha poco a che vedere con la ‘coercizione economica’. I problemi sono altri e ben più profondi. Comunque sia, con l’arrivo al potere dei Democratici, fautori di una politica estera molto ideologizzata, i rapporti con Pechino sono addirittura peggiorati.

Alcuni esponente di spicco, che notoriamente odiano la Cina con tutte le loro forze (come Nancy Pelosi o Hillary Clinton), hanno poi contribuito a rendere ancora più tese le relazioni. La guerra in Ucraina e le sanzioni contro la Russia, infine, sono state il colpo di grazia alla speranza di ricreare il clima di collaborazione che esisteva tra i due Paesi.

L’isola dei microchip

Taiwan per gli Stati Uniti, in questo momento non rappresenta una vera emergenza militare. Nel senso che, al Consiglio per la sicurezza nazionale e al Pentagono, non credono che Xi possa ordinare alle sue forze armate di fare mosse avventate. E Biden, dopo aver tanto parlato di dollari, alla fine si è placato e ha detto che lui, in fondo, è per lo ‘status quo’. «Perché – letterale – Taiwan non ha l’indipendenza di chiedere l’indipendenza», senza che lui la autorizzi, è ovvio. D’altro canto, l’ultima voce di corridoio che doveva rimanere segreta, ma che è stata fatta circolare e non a caso. Pare che, sottobanco, ci sia già una tacita intesa di fondo, tra cinesi e americani.

Taiwan ‘hongkongizzata’

La Casa Bianca chiede di essere lasciata in pace, fino a quando non trasferirà gran parte delle fabbriche di semiconduttori “di fascia alta” e di nuova tecnologia 5.0 da Taiwan all’Arizona. L’isola, per capirci, controlla il 60% della produzione mondiale di microchip ‘normali’ e il 90% di quelli ‘avanzati’.

Il progetto, già siglato e con la TSCM di Taipei, vale 40 miliardi di dollari e sarà seguito dalla realizzazione di altri impianti. Fino a raggiungere un monopolio a stelle e strisce. Solo allora la ‘provincia separata’ potrà tornare, magari ‘hongkongizzata’, alla Cina unica. Senza sparare un colpo.

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