
Dopo il lungo letargo decisionale, l’obiettivo dell’Unione di fabbricare in casa europea e prima del 2030, il 20% dei semiconduttori prodotti nel pianeta. Il Chips act europeo è la risposta anche a l’iniziativa da 52 miliardi di dollari lanciata dagli Stati Uniti, dove sono già in fase avanzata i lavori per l’ampliamento degli impianti di produzione.
Una scelta obbligata che arriva dopo una serie di eventi capaci di modificare i fragili equilibri del commercio internazionale. Prima lo shock del coronavirus, poi il ‘collo di bottiglia’ alimentato dalla esplosiva domanda post-pandemica, infine le gravissime crisi geopolitiche, dall’Ucraina al Mar Cinese meridionale. Ora la decisione strategica alla prova dei fatti, tra molte incertezze sia di ordine finanziario che politico. A partire dai conti sui costi che, che forse dovranno essere rifatti. E le motivazioni politiche che stanno alla base dell’iniziativa UE.
Ridurre la dipendenza europea dall’Asia ma anche dagli Stati Uniti. L’Unione europea si impegna a versare 6,2 miliardi di euro in ricerca e sviluppo. Poi, l’allentamento delle norme sugli aiuti di Stato come accade di fatto negli Usa. Sbloccare le risorse dei Paesi Ue con più margini di bilancio, prime Germania e Francia dove alcuni giganti internazionali dei chip come le statunitense Intel e GlobalFoundries, e l’italo-francese StMicroelectronics hanno annunciato la costruzione di nuove fabbriche. Anche la Tmsc, con sede a Taiwan, leader mondiale nella produzione di chip più avanzati, starebbe prendendo in considerazione un investimento in Europa, secondo quanto scrive Politico.
Il Financial Times sottolinea, una prima palese contraddizione: «Le importazioni dalla Cina nell’UE, comprese tecnologie sensibili e minerali critici, sono aumentate negli ultimi anni, nonostante il deterioramento delle relazioni diplomatiche con Pechino». In sostanza, Bruxelles ha definito la Cina «un rivale sistemico», ma secondo i dati di Eurostat, il valore delle sue esportazioni nel Vecchio continente, tra il 2018 e il 2022 è pressoché raddoppiato. E durante i primi 6 mesi di quest’anno, la musica non è cambiata: la Cina resta di gran lunga il primo fornitore di merci dell’Unione Europea.
Di fronte a una situazione del genere, un molto depresso Commissario europeo per il Commercio, Valdis Dombrovskis, ha dovuto ammettere «che il deficit sbalorditivo tra l’Europa e la Cina dimostra la necessità che Pechino apra i suoi mercati».
Peggio, l’infelice posizione in cui sta venendo a trovarsi l’UE per ciò che riguarda l’HighTech, proprio il settore dei microchip di ‘fascia alta’. L’Europa è in mezzo a una guerra mondiale tra Cina e Stati Uniti. E attenzione, scrive il think tank Stratfor: «il ‘Chips Act’ è ecumenico, non ha solo una valenza anticinese». In questo senso, può anche essere visto, indirettamente, come una sfida alla chiara strategia americana (sostenuta da Biden) di monopolizzare le tecnologie future più sofisticate. Lui dice «per motivi di sicurezza nazionale». Mentre molti altri analisti sostengono che la vera ragione sia quella di un assoluto primato economico, da trasferire poi sul piano geopolitico.
L’Europa avrà la forza per uscire da questa morsa? Complicato, ma ci sta tentando. Per la verità, dietro le quinte, ‘in solitario’, c’è già chi si è dato da fare. La Germania del Cancelliere Scholz e del Ministro dell’Economia Habeck, ad esempio che, ben oltre la sempre citata ‘solidarietà europea’, badano all’interesse nazionale di Grosse Deutschland. Nonostante la Ministra degli Esteri, la ‘verde’ Annalena Baerbock, sempre allineata sulla linea della Casa Bianca, che è arrivata addirittura a minacciare le imprese tedesche che si avventurano in Cina. Ma Scholz, recentemente, è stato a Pechino cercando di smussare alcuni spigoli. Sa benissimo che il suo Paese non potrà fare a meno della Cina. E il Ministro dell’Economia, Robert Habeck è ancora più chiaro: ‘Non vuoi che facciamo affari con i microchip in Cina? Allora pensaci tu’. Dove quel ‘tu’ sta per America
Der Spiegel ha fatto un’inchiesta: si vogliono fare fabbriche di microchip in tutta la Germania, da Ensdorf (Saarland) a Magdeburgo, coinvolgendo colossi come Wolfspeed, Intel, TSMC e Bosch. Problemi? Uno solo, ma grosso quanto una montagna. Un impianto del genere, conti alla mano, secondo i calcoli di TSMC (che è di Taiwan, ma ha aziende negli Stati Uniti), costerebbe 5 volte di più rispetto all’Asia. In Germania, il salasso sarebbe ancora maggiore: circa 7 volte in più. E allora come si tutela la ‘sicurezza nazionale’, quella cara a Biden misurata in quantità di dollari? Con i soldi dello Stato.
Dovrebbero essere i contribuenti, come già avviene negli Stati Uniti, a pagare incentivi e detassazioni, indispensabili per convincere a investire. In Germania, (pare) che qualche produttore vorrebbe un ‘aiutino’ di 10 miliardi di euro per insediarsi in casa.