Cina tra guerra Stati Uniti-Russia e Covid, sceglie l’economia a costo di un milione di morti

Pechino contro le accuse americane di appoggio militare alla Russia. «La Cina non getterà mai legna sul fuoco e mai sfrutterà la crisi», protesta il ministero degli esteri di Pechino.
«Gli Stati Uniti sono quelli che hanno innescato la crisi ucraina e il principale fattore che l’ha alimentata: hanno continuato a vendere armi pesanti e armi d’assalto all’Ucraina, cosa che ha solo prolungato e intensificato il conflitto».
La portavoce del ministero degli Esteri cinese ha anche lanciato un avvertimento agli Stati Uniti sul loro sostegno a Taiwan, avvisandoli che non dovrebbero oltrepassare alcuna “linea rossa”.

La vera sfida planetaria Usa-Cina, sperando che lo scontro in corso con la Russia non tracimi nel nucleare travolgendo ogni futuro. Ma intanto la Cina pensa all’economia più che alla guerra, anche se anche lì, scopre Piero Orteca, abbiamo un numero impressionante di vittime.

Prima l’economia, costi quello che costi

La Cina, che sembrava un rullo compressore, sta facendo i conti, più di quanto ci si aspettasse, con la crisi economica planetaria. Una chiave interpretativa corretta, lega, ovviamente, questo trend negativo alla pandemia da coronavirus, alla sua gestione triennale (la politica “zero-covid”) e all’improvviso cambio di strategia sanitaria, lo scorso dicembre. Oggi, la Cina cresce poco (rispetto ai suoi standard abituali), vende molto di meno, per il fisiologico calo della domanda internazionale e, soprattutto, si sta progressivamente indebitando a un ritmo preoccupante. Ha fatto il passo più lungo della gamba? In un certo senso sì. Nella foia di centrare tutti i programmi di sviluppo, fissati per la fatidica data del 2035, ha continuato a pompare liquidità nel sistema, finanziando a occhi chiusi di tutto. In primis, progetti infrastrutturali, in patria e all’estero.

Intreccio sfera economica e sistema politico

La verità, però, è che il gigante asiatico, al di là dei numeri non proprio soddisfacenti, presenta dei delicati intrecci che legano la sfera finanziaria e produttiva alle trasformazioni del sistema politico. Ci sono, insomma, problemi congiunturali (Covid, riflessi sulla catena degli approvvigionamenti durante la fase post-pandemica, guerra in Ucraina) e ‘riassestamenti’ del vertice istituzionale e della macchina amministrativa. Il terzo mandato a Xi Jinping, come Segretario del Partito comunista e, prossimamente, in qualità di Presidente della Repubblica, ha dato il via a uno “spoiling system”, che sta rivoltando i piani alti della burocrazia. Soprattutto quella dei Ministeri economici e delle istituzioni finanziarie.

‘Spoiling system’ alla cinese

L’analista Wendy Wu (South China Morning Post, di Hong Kong), da Pechino, proprio ieri, ha scritto che le prossime sfide che attendono la nuova leadership cinese sono molto impegnative. Intanto, perché Xi ha cambiato tutto lo zoccolo medio-alto dei dirigenti del Partito e lo stesso farà, a marzo, con quelli dello Stato. I cinesi sanno che devono accelerare in certe aree (come ad esempio quella della tecnologia più sofisticata) e darsi una calmata in altri settori, come quello degli investimenti locali a debito. Ma, per il Partito, prima di ogni cosa, diventa prioritaria la difficile fase di transizione, dalla rigida politica “zero-covid” a quella di un’improvvisa riapertura sociale dovuta all’eliminazione delle restrizioni.

Faccia a faccia con il Covid libero

Una misura presa, rinnegando tre anni di strategia difesa a denti stretti, soprattutto per fare ripartire l’economia e rimettere in moto un ciclo virtuoso, che era stato ‘congelato’ dai divieti imposti per arginare il coronavirus. Una mossa che, se da un lato ha dato nuovi stimoli ai mercati e agli obiettivi economici del Partito, dall’altro ha avuto devastanti ripercussioni sul piano sociosanitario. Così, gratta gratta, proprio un’inchiesta (Jane Cai) del South China Morning Post, punta l’indice accusatorio contro la gestione della pandemia condotta dal governo di Xi. In pratica, questa è la tesi, a Pechino sapevano che il loro sistema sanitario non sarebbe stato in grado di reggere l’urto della dilagante epidemia. E tutto questo per motivi molto gravi: carenza di posti letto negli ospedali, basso numero di terapie intensive esistenti, scarsità di farmaci e gravi lacune della medicina territoriale e di base, pressoché inesistente.

Sistema sanitario inadeguato

Viste tali premesse, il governo ha deciso di giocare d’anticipo, utilizzando il pugno di ferro e applicando restrizioni draconiane. Ha controllato la pandemia, è vero, ma ha affossato l’economia. Non solo quella cinese, ma in senso lato anche quella mondiale, perché la catena di approvvigionamento produttiva, di materie prime e semilavorati, parte proprio dagli scali del colosso asiatico. Ma questo ancora non era sufficiente per avere un’inversione di tendenza. Quasi sicuramente, il 20º Congresso di novembre ha dato a Xi Jinping l’opportunità di capovolgere tutto. O, forse, questa scelta può anche essere stata la risultante di una “trattativa” con altre scuole di pensiero nel Partito. Comunque sia, da situazioni di questo tipo non si esce senza traumi.

Da ‘zero Covid’ a ‘liberi tutti’

La politica “zero-covid” ha sollevato, magari senza troppo clamore, continue proteste. E alla fine, anche pericolose fibrillazioni, con la gente scesa a manifestare per le strade. La rivoluzione copernicana del “liberi tutti”, sta già aprendo un fossato tra i cittadini e il governo, per la palese incapacità delle autorità sanitarie di gestire il contagio dilagante. Con ‘zero-covid’ non ci si è preoccupati di spingere una efficace politica di prevenzione vaccinale. E oggi solo il 40% degli ultraottantenni ha fatto almeno due dosi. A complicare tutto, c’è anche il fatto che la variante “omicron” è altamente trasmissibile.

I pareri internazionali più accreditati dicono che la Cina, passando da una politica di chiusura totale a una strategia senza restrizioni, farà risorgere certamente la sua economia. Al costo di almeno un milione di morti.

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