
Stamane, alle sei italiane, il repubblicano Kevin McCarthy è diventato il nuovo ‘speaker’, il Presidente della Camera del Congresso Usa. Alla 14ma votazione, un record storico McCarthy si era fermato a 214 voti, ad una spanna dal traguardo dei 218 voti necessari. La sua mancata elezione era diventata una catastrofe politica nazionale. Si, perché, difatti, il Parlamento si è bloccato e non può legiferare. E gli strumenti costituzionali per superare l’impasse, semplicemente non ci sono. Un’ora dopo la svolta, probabilmente molto accuratemente organizzata.
Sbaglia di grosso chi pensava che l’ennesimo scossone, riguardante il tartassatissimo sistema istituzionale d’Oltreoceano, fosse solo da liquidare come “una bega di partito”. Certo, il GOP repubblicano sta offrendo uno spettacolo mortificante, dopo avere conquistato, per il rotto della cuffia, la maggioranza alla Camera nelle recenti elezioni di “Mid term”. Il Grand Old Party ha prima annunciato e poi designato Kevun McCarthy, come nuovo ‘speaker’. Avrebbe dovuto prendere il posto della ‘mitica’ (od odiosa, dipende dai punti di vista) Nancy Pelosi. Invece, un agguerrito plotone dei suoi stessi compagni di partito (una ventina) gli ha votato contro, mummificando temporaneamente la democrazia Usa.
La fronda non è nemmeno trumpiana, anche se forse agisce nel solco, anzi, nelle voragini create dall’ex Presidente, col suo modo di trattare avversari e, soprattutto, ‘amici’ nell’establishment politico. Ci spieghiamo. La forza di Trump, finora, è arrivata dai soldi spesi per creare consenso nelle campagne elettorali. È un bravissimo collettore di dollari, che arrivano attraverso importanti donazioni. In un certo senso, per molti Repubblicani ha rappresentato la ‘banca’ reale del partito, decidendo chi sostenere e quanti fondi concedergli.
Ma da un po’ di tempo a questa parte, la stella da ‘Paperone’ di Donald si è un po’ appannata: continua a raccogliere soldi come una slot-machine, ma gli altri si sono organizzati. Adesso, ha scoperto un’indagine del Wall Street Journal, i pesci piccoli riescono ad autofinanziarsi con minimi contributi che piovono via mail. Secondo Julie Bykowicz, si tratta di donazioni di 10-20 dollari, a volte forse di qualcosa in più della media. Però, attenzione: proprio la modesta entità della somma rende possibile, in alcuni casi, un sostegno che si allarga a macchia d’olio e può diventare plebiscitario. Così, il pesce piccolo riesce a incassare contributi enormi per la sua campagna elettorale. E non ha obblighi di ‘obbedienza’ con i pezzi grossi, che non l’hanno finanziato. Anche se, alla fine, hanno dovuto dire sì a Trump, certo in cambio di qualcosa.
Ovviamente, chi si mette contro la maggioranza del partito non lo fa certo solo per ‘idealismo’. E così si scopre che i ribelli sono accusati di giocare sporco, sulla pelle del GOP e, per la proprietà transitiva, su quella dell’intero Paese. In un’intervista a Fox News, il repubblicano Dan Crenshaw (pro-McCarthy) ha puntato l’indice contro di loro, dicendo che «non si capisce per che cosa stanno votando contro. Se glielo chiedi, danno solo risposte vaghe: beh, è per fare funzionare meglio questo posto. Siamo stanchi della palude, dicono. Ma esprimono solo degli slogan. È come se fossero in campagna elettorale».
La bordata più potente, però, Crenshaw la riserva all’affaire dei finanziamenti via mail. «Cercano soldi – dice – per fare l’opposizione a McCarthy, e questa è una cosa immorale». Tra l’altro, gli analisti, oltre a condividere il report del Wall Street Journal, aggiungono elementi probanti di caratura più specificamente ‘dottrinaria’. I ribelli sono ultraconservatori, totalmente anti-fisco e sembrano legati a una visione dell’America e dei suoi valori quasi pionieristica. I leader sono Chip Roy (Texas), Rajph Norman (South Carolina) e Byron Donalds (Florida). Ma vi sono tra di loro, anche rappresentanti che si sono fatti conoscere in precedenza per le loro posizioni ‘dure e pure’, come Scott Perry (Pennsylvania) e Lauren Boebert (Colorado).
In definitiva, però, resta la sensazione concreta che la vicenda McCarthy nasconda malesseri più profondi della democrazia Usa. Frank De Vito (esperto costituzionalista) prende in esame i poteri dello ‘speaker’ della Camera del Congresso e li trova sproporzionati. Potrebbe essere questo, al di là del secolare e contrastato rapporto tra le varie anime conservatrici dei Repubblicani, uno dei veri motivi della rivolta. McCarthy, insomma, è già un ‘representative’ giudicato molto potente, che da ‘speaker’ diventerebbe praticamente inarginabile. De Vito, per risolvere i problemi, presenti e futuri, propone quindi una riforma costituzionale nel futuro del forse.
Nel frattempo, visto lo stato dell’arte, era prevedibile che alla fine si sarebbe raggiunta un’intesa. È sempre questione di prezzo. E Trump finora almeno, può ancora pagare in contanti.
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Secondo quanto è trapelato sui media americani, i ribelli hanno ottenuto che un singolo deputato possa chiedere un voto di sfiducia per cacciare lo speaker; che il Freedom Caucus, l’ala destra del partito, ottenga un terzo dei membri della potente Rules Committee, la commissione che controlla quali leggi arrivano in aula e in che forma; che si possa votare sulla proposta di limiti di mandato e sulla legge per la sicurezza dei confini. Il californiano ha promesso inoltre che il suo comitato elettorale non si intrometterà in primarie considerate ‘sicure’. Concessioni che, tutte insieme, non fanno altro che indebolire il ruolo dello speaker.
‘Last but not least’, la promessa che avrebbe sbloccato il risultato: un taglio alle spese per la difesa da 75 miliardi di dollari promesso da McCarthy proprio nel giorno in cui il presidente americano Joe Biden ha annunciato un nuovo ingente pacchetto di armi da 3 miliardi di dollari all’Ucraina.
Una mossa che se ha accontentato i ribelli del Grand old party rischia di irritare i falchi all’interno del partito che invece sostengono la necessità di aumentare il budget per la difesa in chiave anti-Russia e anti-Cina. Quello che è certo è che il drammatico cammino che ha portato all’elezione di McCarthy è indicativo che la gestione della Camera per i prossimi due anni sarà molto complicata e che la fronde degli ultraconservatori peserà più di quanto parte del partito repubblicano potesse immaginare.