
L’escalation di tensioni inizia con il sequestro di un carico di greggio iraniano, trasportato dalla ‘Suez Rajan’, che le navi della 5ª Flotta avevano dirottato verso gli Usa applicando rigidamente e pericolosamente le sanzioni contro Teheran. Iraniani inferociti per le sanzioni che oggi gli americani pretendono di far rispettare fino alle virgole, mentre sino a un po’ di tempo fa, a Washington ‘nessuno se le filava’. O meglio, a loro non conveniva, Biden aveva detto di chiudere un occhio con quasi tutti gli ‘Stati-canaglia’, dal Venezuela di Maduro all’Iran degli Ayatollah, purché mettessero in commercio petrolio. Con la crisi dei prezzi dell’energia, per la guerra in Ucraina e per le sanzioni alla Russia, c’era bisogno di ogni goccia di petrolio, pronta a essere messa a disposizione sul mercato.
Prezzi in ascesa, export in ascesa e geopolitica nel congelatore.
In quel momento, Biden aveva bisogno del petrolio iraniano, venduto altrove nel mondo, ma che contribuiva a calmierare i prezzi. Oggi, finite le elezioni di Medio termine con il minimo dei danni, sceso il prezzo dell’energia per i più svariati motivi, approssimandosi le Presidenziali del 2024, Biden non ha più bisogno del petrolio iraniano. Anzi. Facendo la faccia feroce (che non poteva fare fino a 6 mesi fa), magari acquista nuovi elettori tra gli ‘indecisi’. Insomma, in fondo, a Teheran qualche ragione per sentirsi presi in giro dagli americani forse ce l’hanno. Comunque, non si tratta di un gioco a somma zero, in cui uno vince e l’altro perde tutto. Bisogna stare attenti, perché da Hormuz passa il 35% del petrolio mondiale che viene esportato via mare. Quindi, non si deve tirare troppo la corda.
Raid Alkadiri, un esperto dell’Eurasia Group, pensa che la Casa Bianca abbia pochi incentivi economici a fare qualsiasi cosa che metta a rischio il movimento del petrolio nel Golfo Persico, “dato l’impatto che avrebbe sui prezzi”.
Già altre volte, l’Amministrazione Biden ha dimostrato di avere scarsa lungimiranza nell’elaborare strategie geopolitiche di medio-lungo periodo. Secondo il Financial Times, l’attuale riferimento nel prezzo del greggio “Brent”, costantemente sotto i 75 dollari al barile, potrebbe essere una sorta di ‘falso scopo’, un parametro fuorviante, per la pressione politico diplomatica nei confronti dell’Iran. E, parlando di energia, il discorso si può allargare alle relazioni, non sempre soddisfacenti, tra Washington e molti dei Paesi dell’Opec.
In ogni caso, la libertà della navigazione nello Stretto di Hormuz, non è una variabile che dipende solo da fattori legati al petrolio. Tutto parte dall’alto, cioè da una riscrittura degli assetti strategici regionali e dal riconoscimento, che l’Iran pretende, di esserne la potenza leader. Magari irreggimentata da uno schema di alleanze e di contrappesi, che garantiscano un equilibrio geopolitico accettabile e accettato da tutti.
Non è un caso se ieri, a Damasco, si è recato in visita il Presidente della Repubblica iraniana, Ebrahim Raisi, che incontrando il suo omologo, Bashar al-Assad, si è detto pronto a contribuire alla ricostruzione della Siria, martoriata dalla guerra civile.
In politica estera, tutto quello che si offre non è mai gratis. Raisi vuole usare la Siria, più di prima, come testa di ponte privilegiata per arrivare fino al Libano. Là, sul Golan, c’è il suo braccio armato, pronto giorno e notte a fare la guerra a Israele: Hezbollah, il Partito di Dio.