«L’imputato Donald J Trump ha perso le elezioni del 2020, compresi gli scrutini in Georgia. Ma Trump e gli altri imputati si sono rifiutati di accettare questa realtà ed hanno cospirato per modificare illegalmente l’esito a loro favore», riferisce il Manifesto. Quasi da giornalismo esemplare l’incipit dell’atto d’accusa. Una tesi accettata dal gran giurì che ha formalizzato le imputazioni nei confronti di Trump e di 18 complici, fra cui Rudy Giuliani e l’ex capo di gabinetto Mark Meadows, e numerosi consiglieri ed avvocati, che nell’autunno del 2020 e primi mesi del 2021 avrebbero consapevolmente e congiuntamente operato per tentare di rovesciare l’elezione presidenziale che Joe Biden aveva legittimamente vinto.
A loro carico, 41 capi d’imputazione, compresi ostruzione di giustizia, falso in atti d’ufficio e associazione a delinquere di stampo mafioso. Quest’ultimo è il dato saliente di questo quarto caso giudiziario a carico dell’ex presidente poiché lo pone al centro di una presunta organizzazione criminosa.
Racket criminale, e le imputazioni sono dunque finite nel RICO (racketeer influenced and corrupt organizations act) utilizzato contro la criminalità organizzata, dai cartelli della droga alle famiglie di Cosa nostra (come sa bene lo stesso Giuliani che da pubblico ministero d’assalto lo aveva utilizzato contro le famiglie mafiose di New York). Oltre ad esporre gli imputati alle aggravanti del caso, nel contesto politico, e specificamente di un gruppo di consiglieri presidenziali dediti ad un progetto criminoso, rimanda al caso Watergate.
Come ai tempi di Nixon, il caso ruota attorno a «sporchi trucchi elettorali»: nel caso specifico, gli avvocati e consiglieri che dopo la sconfitta fecero quadrato attorno al presidente uscente, riunendosi spesso alla Casa Bianca – come raccontato da molti testimoni già alla commissione di inchiesta parlamentare sul 6 gennaio – per mettere a punto una strategia sovversiva per mantenere il potere.
Il piano comprendeva la diffusione massiccia di disinformazione su presunti ‘vasti brogli’, in un primo momento ricorsi legali ed in seguito ‘vie di fatto’, fra cui pressioni sconfinate in minacce e tentata corruzione di pubblici ufficiali, spesso appartenenti allo stesso partito repubblicano.
L’operazione prese di mira stati in bilico come Arizona, Wisconsin e Pennsylvania ed ebbe proprio in Georgia l’epicentro, culminato nella la famigerata telefonata intercettata di Trump al commissario elettorale repubblicano Brad Raffensperger, chiedendo di «far saltare fuori gli 11.780 voti necessari a vincere quelle primarie» (il disavanzo esatto con il quale in realtà Trump aveva perso, più un voto). L’operazione comprese anche tentativi di certificare ‘delegati alternativi’ rispetto a quelli espressi dai regolari collegi elettorali nel sistema di voto americano.
Il processo in Georgia si aggiunge ai fascicoli sui documenti top secret illecitamente sottratti agli archivi nazionali, quello per frode fiscale a New York e quello federale per l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio, 2021. Una bufera giudiziaria che prefigura come sempre più paradossale il panorama delle prossime elezioni, ormai alle porte, la sintesi finale di Caleda.
Non solo sembra certo che il probabile candidato repubblicano sarà pluri incriminato in processi che difficilmente potranno essere celebrati per tempo, ma che anche Joe Biden potrebbe a breve venire, indirettamente, coinvolto in scomode vicende giudiziarie, tramite le accuse di illeciti finanziari internazionali e corruzione rivolte al figlio Hunter.