«Gli Stati Uniti, leader indiscussi dell’Alleanza, non vogliono chiudere la porta a futuri negoziati per un cessate-il-fuoco con la Russia», la premessa di Mirko Mussetti su Limes. Lui e molti altro osservatori a rilevare il disagio americano di fronte alla ossessiva richiesta ucraina di batterie missilistiche terra-aria. Chieste anche con toni perentori e ‘lista della spesa’: «Iris, Hawk, Patriot», missili e solo dopo, anche dei generatori per un Paese al buoi e al gelo. Più aiuti militari che umanitari, per l’ufficialità politica del governo di Kiev. Ma da Washington è arrivato uno stop: «In questo momento non abbiamo in programma di fornire batterie Patriot all’Ucraina», ha affermato l’addetto stampa del Pentagono generale Pat Ryder.
Il rischio del troppo, in attesa che qualcosa cambi (e non è detto sia prima a Mosca). Stati Uniti restii a concedere l’uso a Kiev dei propri sistemi di difesa anti-aerea per molte ragioni.
Uno, evitare il rischio di confronto diretto tra Nato e Russia verso una potenziale escalation nucleare.
Due, per i Patriot all’Ucraina mancano i necessari ‘sistemi a stelle e strisce’ sul fianco orientale della Nato (gli Usa tengono stretta la sovranità del software).
Tre, i ritmi attuali del conflitto non permettono la fornitura prolungata e costante di onerosi proiettili terra-aria, la cui produzione è contenuta.
Quattro, la produzione americana delle armi più sofisticate non può essere esclusiva per il ‘teatro ucraino’ (ipotesi crisi Taiwan).
Cinque, la Russia potrebbe sperimentare sul campo come annientare le batterie americane di difesa dell’Europa occidentale.
Sei, le batterie potrebbero essere catturate dagli invasori, copiate e usate contro.
Sette, i costosi Patriot potrebbero rivelarsi sul campo di battaglia non più performanti di altri sistemi difensivi più economici, guastando il mercato internazionale del produttore statunitense.
Alcune cancellerie ‘euroatlantiche’ tra quelle meno allineate provano un certo disagio/fastidio di fronte all’insistenza diplomatica dell’Ucraina, paese non Nato verso cui non esiste obbligo giuridico o politico, la considerazione chiave solo sussurrata. L’Ungheria ha addirittura bloccato la riunione della Commissione Ucraina-Nato a causa delle discriminazioni operate da Kiev verso la minoranza magiara.
«Tutti possono vedere che finora Budapest non ha sollevato la questione dei diritti degli ungheresi in Transcarpazia. Noi non solleviamo il tema ora, ma non lo abbiamo nemmeno dimenticato», ha affermato il ministro degli Esteri ungherese Péter Szijjártó, esprimendo la necessità di affrontare la questione etnica quando la guerra nel paese confinante sarà terminata.
Per superare il veto ungherese, il segretario generale Stoltenberg è stato costretto a organizzare una riunione separata e informale dei ministri degli Esteri della Nato e dell’Ucraina – cui Szijjártó non ha partecipato – le cui conclusioni non sono quindi vincolanti per l’Alleanza.
«L’esclusione di un membro dai colloqui per far posto a un ospite esterno non può che incrinare i rapporti interni al consesso euroatlantico e generare inutili sospetti», l’osservazione commento di Musetti.
Sullo sfondo della guerra d’Ucraina in casa Nato si gioca la successione al segretario uscente Jens Stoltenberg, in carica dal 1° ottobre 2014. Partita geopolitica di valenza strategica. Il segretario di Stato Usa Blinken ringrazia calorosamente e di fatto annuncia il commiato. Dal ‘tutto nord’ (Scheffer/Paesi Bassi, Rasmussen/Danimarca, Stoltenberg/Norvegia, oggi, con Svezia e Finlandia ormai arruolate, alla Nato conviene scende a sud, direttamente sul fronte est con la nemica Russia. «Stemperando le posizioni più belliciste e onerose dei paesi baltici».
«Il futuro segretario generale dovrebbe provenire da un paese dell’Europa orientale, ma con sfumature più equilibrate e con un occhio particolare per gli attriti nei Balcani occidentali».
«A differenza delle intemperanze del “falco baltico” (Polonia), l’approccio equilibrato della “colomba eusina” (Romania) piace molto agli Stati Uniti, che non gradiscono essere tirati per la giacca dai paesi gregari», sottolinea Limes. Del resto l’atlantismo del presidente rumeno Klaus Iohannis è fuori discussione, così come il ruolo di perno strategico della Nato ricoperto da Bucarest. Il protagonismo del paese neolatino nel ‘cementificare’ (quasi testuale) il fianco orientale della Nato e la trilaterale Polonia-Romania-Turchia, potrebbe essere presto premiato dal ‘Numero Uno Usa’ con la designazione di un prossimo segretario generale romeno. E le origini sassoni di Iohannis potrebbero essere gradite anche a Berlino, «mentre la proroga di un anno del mandato di Stoltenberg è parso provvidenziale per favorire il capo di Stato romeno rieletto nel 2019», la conclusione di Mirko Mussetti.
La facciata della Nato si presenta sempre compatta, ma nulla è come sembra. E ogni cancelleria gioca la propria partita per definire i futuri assetti dell’Alleanza.
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