Belgrado, 3 maggio, un 14enne apre il fuoco in una scuola e fa strage di studenti. Era accaduto nella scuola elementare ‘Vladislav Ribnikar‘ della capitale. Otto bambini e una guardia uccisi. Lo studente aveva pianificato la strage da un mese. Solo due giorni dopo un giovane di 21 anni, sempre a Belgrado, spara dall’auto sulla folla: almeno 8 morti e 13 feriti. Killer arrestato dopo aver tentato la fuga. Il ministro degli Interni, Bratislav Gašić, promette vigilanza sulla diffusione delle armi e il capo delle spie, Aleksandar Vulin di mobilitare fantomatica BIA. Poi, nessun atto concreto verificabile.
Dal maledetto inizio di maggio, organizzate le prime manifestazioni per chiedere leggi più severe contro la vendita di armi, e contro una cultura popolare di esaltazione della violenza che secondo alcuni è molto presente a vari livelli della società serba. Da allora quelle proteste si sono allargate: ogni sabato nelle principali città serbe, soprattutto nella capitale Belgrado, sfilano migliaia di persone per protestare contro il governo e il presidente Aleksandar Vučić, accusato di non essere intervenuto sulla disciplina del possesso di armi e di autoritarismo rispetto alla libertà di informazione e di dissenso.
Secondo Euronews le proteste di questi giorni sono le più grandi da quelle che nel 2000 spinsero l’allora presidente Slobodan Milošević ad accettare la sconfitta subita alle elezioni politiche del 2000. L’anno successivo Milošević fu poi arrestato ed estradato nei Paesi Bassi accusato di crimini di guerra e crimini contro l’umanità compiuti durante la guerra in Bosnia-Erzegovina, ma morto in carcere senza sentenza di condanna. «Queste proteste sono qualcosa di nuovo e diverso rispetto a quelle degli anni scorsi. Stanno scendendo per strada persone che hanno opinioni politiche varie, e appartengono a generazioni e classi sociali differenti», ha detto a Balkan Insight Robert Kozma, parlamentare di opposizione e leader delle proteste di questi giorni.
La Serbia è un paese che per molti versi si trova in un limbo, valutazione politica d’affetto ma calzante. Da anni mantiene una politica di equidistanza fra l’Unione Europea, a cui appartengono o aspirano di farlo quasi tutti i paesi della penisola balcanica, e la Russia, con cui la Serbia ha importanti legami culturali ed economici. A oggi è l’unico paese europeo che non si è unito alle sanzioni Ue contro la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Ed assieme, è uno dei paesi con l’economia più stabile della regione. Il salto di qualità verso l’Unione bloccato dal bubbone Kosovo, forzatura internazionale di secessione che divide il mondo a metà tra chi riconosce e chi non riconosce il riottoso Kosovo indipendente sempre sull’orlo della violenza.
Da dieci anni la politica serba è dominata da Vučić. 53 anni, un passato da nazionalista radicale da non dimenticare, ministro durante l’ultima amministrazione Milošević. Nel 2014 era diventato primo ministro e dal 2017 è il presidente. Nel 2022 è stato rieletto con ampio margine. Anche se il presidente in Serbia ha poteri soprattutto formali, in questi anni Vučić, grazie al suo ruolo e a un processo di lottizzazione organico, è riuscito a consolidare enormemente il controllo esercitato dal proprio partito sulla politica e sulla società serba. Le tv e i giornali, sia pubblici sia privati, sono pieni di persone vicine a Vučić, che usa una retorica simile a quella di altri governi autoritari dell’Europa orientale, ad esempio, sui diritti dei migranti e della comunità LGBT+ per garantirsi il supporto dalla potentissima Chiesa ortodossa locale.
Alcuni membri dell’opposizione accusano inoltre il governo di avere legami con le gang criminali responsabili di violenze, estorsioni e traffici illegali in varie zone del paese. I manifestanti di queste settimane stanno protestando sia contro il controllo indiretto che Vučić ha imposto ai media, sia per il clima che si è creato contro chi si oppone al governo e alle sue politiche. «Il governo sparge veleno e paura in tutta la Serbia, ma il tempo gioca a nostro favore, e a prescindere da quanto ci metteremo, andremo avanti e perseguiremo i nostri obiettivi», ha detto a Reuters sabato scorso un manifestante, l’economista Vladimir Savic e riporta il Post.
I manifestanti chiedono che il governo rimuova le frequenze a due tv private filo-governative, Pink e Happy TV, che garantisca maggiore libertà per i quotidiani di opposizione –ne sono rimasti appena due – e che si dimettano sia il capo dell’intelligence, la sospettabilissima BIA, sia il ministro dell’Interno di cui abbiamo detto all’inizio, per la gestione della violenza e della criminalità di cui le due stragi giovanili sono soltanto il dramma più evidente. La prima ministra Ana Brnabić, vicinissima a Vučić e considerata una delle figure più dialoganti del governo, si è offerta di accogliere i manifestanti e ascoltare le loro proposte: ad oggi però i manifestanti hanno rifiutato, chiedendo prima dei passi concreti da parte del governo.
Vučić ha fatto intuire che potrebbe indire elezioni anticipate contando di esibire il suo consenso, ma non lo ha ancora confermato ufficialmente di fronte a sondaggi incerti.