
La posizione quasi monopolistica di Pechino, sui mercati internazionali, per alcune materie prime e certi semilavorati, conferisce alla Cina un enorme potere contrattuale. Quasi una forza di ricatto economico. E sintetizzando molto, dalla ‘guerra dei microchip’ in poi, l’Occidente ha preso coscienza che bisognava bilanciare il peso straripante della Cina come fornitore ‘monopolistico’ di alcuni fattori della produzione tra materie prime e costo del lavoro. E qui entra in ballo il nostro convitato di pietra di oggi: l’India.
È l’India la mitica ‘Cina+1’? I presupposti ci sono tutti, anche se c’è una forte differenza, tra la velocità di crescita del sistema-paese indiano e le immediate esigenze del mercato internazionale. Altre nazioni come Messico, Vietnam, Malesia o Thailandia si sono inserite, ma le dimensioni delle loro economie non sono certo in grado di offrire una alternativa ai prodotti cinesi. E la speranza dell’Occidente è che l’India aumenti la sua capacità produttiva e, soprattutto, il volume dell’export di semilavorati e beni durevoli ad alto valore aggiunto.
Principale problema attuale, sottolineano le analisi dalla Banca mondiale, è la scarsa qualificazione media dei suoi lavoratori. Che si coniuga, negativamente, con l’utilizzo ancora troppo limitato di tecnologie avanzate nei processi produttivi. Tanto che l’industria manifatturiera, nel 2021, ha esportato 10 volte meno della Cina. Esistono però delle aree di eccellenza, come quelle dell’elettronica e della telefonia, dove l’India sta compiendo dei progressi formidabili. Tanto che grandi aziende occidentali hanno deciso cospicui investimenti. In questo settore, in soli 4 anni, le esportazioni sono triplicate fino a 23 miliardi di dollari l’anno.
Un caso emblematico è quello della Apple, la cui presenza ha avuto un poderoso effetto moltiplicatore su tutta l’economia cinese ad alta tecnologia. Adesso sta avvenendo la stessa cosa in India, dove l’azienda californiana pensa di produrre il 25% di tutti i suoi iPhone entro il 2025. Naturalmente, uno sforzo di questo tipo, che tocca tutti i settori dell’economia, dev’essere accompagnato da un necessario adeguamento dei servizi offerti alle imprese. In parole povere, va aggiornata la spina dorsale dell’amministrazione statuale.
‘Make in India’ è il decalogo, la vera e propria rivoluzione di ciò che il potere centrale indiano può fare per le aziende. «Sono stati digitalizzati molti servizi governativi – scrive il WSJ – mentre veniva accelerata la costruzione di nuove ferrovie, aeroporti, scali per container e centrali elettriche». Inoltre, grande attenzione viene riservata alla fiscalità di vantaggio. La finlandese Salcomp, la più grande produttrice mondiale di caricabatterie, opera in India da tempo grazie a un’accorta politica di dazi doganali favorevoli.
La burocrazia non segue il passo dell’economia e rallenta i processi produttivi. Visti e autorizzazioni arrancano, mentre la mobilità del mercato del lavoro è insoddisfacente. La democrazia indiana rende i sindacati più forti e combattivi di quanto non faccia l’autocrazia cinese. La rigidità di alcune strategie di importazione che influenza il costo di alcune materie prime e semilavorati (prodotti solo in India), che hanno un prezzo più alto di quanto non avvenga in Cina, nelle cosiddette Zone economiche speciali.
Uno studio di Viral Acharya, della New York University, ex vice governatore della Banca centrale di Delhi, denuncia un ancora forte ‘protezionismo perdente’ dell’India proprio in quelle aree dove potrebbe sostituire la Cina. Concetto ribadito da Arvind Subramanian, consigliere economico del premier, Narendra Modi, fino al 2018. Insomma, c’è ancora molto da fare in molto settori prima che l’India possa concorrere, oltre che sul numero di popolazione, con la Cina.
Quest’anno il Pil indiano crescerà ben oltre il 6%, l’inflazione non dovrebbe superare il 7%, mentre invece la disoccupazione resterà inchiodata intorno all’8%. Fatta una seria analisi comparativa, la nuova ‘Cina+1’ è ancora lontana: basta pensare che, rispetto a quella indiana, l’economia di Pechino è quasi sei volte più grande.