Dopo la strage all’ospedale di Gaza le capitali arabe si infiammano. Proteste in solidarietà con la Palestina davanti alle ambasciate francesi, Usa e israeliane, scontri violenti con la polizia a Beirut, Amman, Tunisi… Ma continua il fuoco sulla Striscia, i morti salgono a 3.500 e le reazioni esplodono nel mondo.
Il coinvolgimento di Mosca nell’attacco di Hamas contro Israele anche senza prove, la crisi di rifugiati in Europa e i golpe del Sahel, e infine, il rafforzamento dell’Iran, che il vice diavolo per gli Stati Uniti. Lo dice, in un’intervista a Repubblica, il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba. Con Putin, non è certo un angioletto, che diventa il Super Diavolo che proprio adesso sta applicando i suoi poteri di malvagità in Cina assieme all’altro Diavolo maiuscolo, Xi Jinping, con cui, oltre che di Medio Oriente, discute anche di Ucraina.
«ll piano cinese per risolvere il conflitto in Ucraina è realistico e potrebbe costituire la base per i colloqui di pace», aveva dichiarato il Putin con l’emittente televisiva cinese Cctv, alla vigilia del viaggio a Pechino. «Penso che siano assolutamente realistici e che possano gettare le basi per un accordo di pace», ha aggiunto il leader russo, lamentando la riluttanza di Kiev a impegnarsi con Mosca. Un’apertura mentre sul terreno, secondo le parole di Putin, «le truppe russe stanno migliorando la loro posizione lungo quasi tutta la linea di contatto in Ucraina orientale».
Ma l’Ucraina guarda solo ad ovest: «Abbiamo avuto rassicurazioni dal governo americano, presidente Biden incluso, che il sostegno all’Ucraina contro l’aggressione russa rimarrà una priorità per tutto il mandato. Ucraina e Israele sono due teatri della stessa guerra – afferma Kuleba – perché gli attori dall’altra parte del fronte sono gli stessi. E, sebbene l’Ucraina temporaneamente non sia più nei titoli dei giornali per quanto sta accadendo in Israele, è ancora sulla prima pagina dell’agenda sicurezza internazionale». E sull’asse Russia-Cina, «la Cina, a quanto ne so, non fornisce armi a Putin. Questo ci basta», risponde Kuleba.
«Non è il momento giusto». Con questa motivazione Israele ha respinto la richiesta del presidente ucraino Volodymyr Zelensky di recarsi nel paese per una visita di solidarietà dopo l’attacco di Hamas. Lo riporta The Times of Israel. Zelensky ha difeso Israele dopo l’assalto, affermando che il paese ha il diritto indiscutibile di difendersi, mentre sugli avvenimenti più recenti di Gaza non risulta abbia dichiarato. «Il terrorismo è sempre un crimine, non solo contro un Paese o contro vittime specifiche, ma contro l’umanità nel suo insieme», ha affermato il presidente ucraino. Israele ha ripetutamente espresso sostegno a Kiev ma ha smesso di offrire aiuti militari, innescando tensioni diplomatiche.
Israele, necessario ricordare, ha esitato a condannare Mosca, che ha una forte presenza militare in Siria. Di fatto il nuovo scenario di guerra può mettere a rischio l’entità dei sostegni finanziari per l’Ucraina.
Sul collegamento tra i due teatri di guerra. «Nessuna connessione diretta tra ciò che sta accadendo in Israele e in Ucraina, nel senso che non c’è Putin dietro l’attacco di Hamas», ironizza l’HuffPost. Israele si è mossa in modo particolarmente prudente e, schierandosi per il sostegno a Kiev, ha evitato di mandare armi, con un occhio alle comunità ebraiche in Siria. «Però, pur non essendoci un rapporto diretto, le due vicende si incrociano, determinando uno scenario inedito», spiega meglio del ministro Kuleba, Alessandro De Angelis.
«Se la guerra del Kippur ebbe riflessi internazionali enormi, a partire dalla crisi petrolifera (Italia a targhe alterne), questa vicenda si aggiunge a una guerra nel cuore dell’Europa. Destabilizzando un mondo già sufficientemente destabilizzato».
Tuttavia, alla luce della drammatica escalation a Gaza, suonano quasi come profetiche sull’assunzione di responsabilità di fronte alle sfide che si impongono all’Occidente. Due teatri di conflitto distinti ma assieme destinati a porre al centro delle attenzioni del mondo il tema della politica internazionale. In una scaletta di attenzioni non necessariamente scritta dagli Stati Uniti o dall’Europa a traino, come stanno dimostrando le dilaganti proteste del mondo islamico e terzo.
L’attenzione italiana –allarmismi anti-terrorismo anti-migranti a parte– dovrebbe concentrarsi ora sul Libano, dove è operativo un numeroso contingente militare italiano col casco blu dell’Onu, sotto minaccia di scontri quotidiani Israele-Hezbollah, possa diventare guerra aperta, bis di quella catastrofica del 2006.