Ieri il primo ministro giordano Bishr al-Khasawneh, con una durezza inusuale e significativa per la diplomazia del regno, ha ricordato a Netanyahu che l’escalation di attacchi dei coloni ebrei, nella Cisgiordania occupata, deve cessare. E lo stesso deve avvenire per i luoghi santi islamici e cristiani, riferisce il The Jordan Times. E per la prima volta il premier ha parlato di una «linea rossa che non si dovrà varcare e per la quale la Giordania ha tolleranza zero». E queste sono parole che un esponente del governo giordano non pronunciava dal 1994, da quando, cioè, si firmò il trattato di pace con Tel Aviv, che sistemava il contenzioso risalente alla guerra dei Sei giorni.
I messaggi del premier sono ovviamente la voce di re Abdullah II, e rappresentano anche un monito per la Casa Bianca. «La Giordania reagirà a qualsiasi tentativo israeliano di sfollare i palestinesi come se fosse una dichiarazione di guerra e una violazione del trattato di pace giordano-israeliano». E Khasawneh ripete chiaramente: «Se Israele sposta con la forza i palestinesi o crea un ambiente che porta al loro sfollamento forzato, la Giordania lo considererà una dichiarazione di guerra e una violazione materiale del trattato di pace».
Insomma, il Re di Giordania, Abdullah II, fa capire anche e soprattutto a Biden, alleato/succube, che se Netanyahu dovesse perseguire qualche occulto disegno di «pulizia etnica», in Cisgiordania, la sua risposta ‘sarebbe pronta’. Amman che straccia il Trattato di pace con Israele, riportando trent’anni indietro l’orologio della storia. Anche se poi, alla prova dei fatti, bisognerebbe fare i conti con molti altri fattori di ‘cointeressenza’ tra i due Paesi, come le risorse idriche.
Il sospetto che i ‘rumors’ su piani israeliani di «trasferimento di massicce quote della popolazione palestinese», possano improvvisamente materializzarsi. Non solo chiacchere, ma segnali preoccupanti. Sospetti anche a Washington se Biden e Blinken si sono preoccupati di ribadire, ripetutamente, «che i palestinesi sfollati torneranno nel Nord di Gaza». E negli ultimi giorni, la Casa Bianca è tornata a ripetere il suo invito-avvertimento al governo israeliano, per quanto riguarda la Cisgiordania: «frenate l’arroganza e la violenza dei coloni contro i residenti palestinesi».
Ma secondo molti analisti, all’interno dell’establishment dello Stato ebraico, esiste una lobby politica che ipotizza soluzioni radicali, come i «trasferimenti di massa», un’altra tragica Nakba, l’espulsione di una intera popolazione dalle sue terre. Un recente articolo di Gila Gamliel, Ministro israeliano per l’Intelligence, apparso sul Jerusalem Post, sembra proprio dare ragione ai timori espressi dalla Giordania. La Gamliel boccia, senza esitazioni, un ritorno dell’Autorità nazionale palestinese a Gaza, dopo la fine delle ostilità. Propone, invece, il reinsediamento all’estero degli ex residenti nella Striscia. Un’operazione che dovrebbe essere finanziata dalle Nazioni Unite
Un esodo da Gaza, imposto ai palestinesi, che pare sia già stato oggetto di colloqui, all’inizio del conflitto, col Presidente egiziano El Sisi. Che avrebbe rifiutato. Le voci non verificate riferiscono di possibili trasferimenti nel deserto del Sinai. Tra follie geopolitiche e disumanità, il tema rappresenta uno dei nodi più scottanti da risolvere per Netanyahu. E per Biden e anche per un bel pezzo di occidente affiliato. Con gli alleati storici sempre più diffidenti, quasi prossimi ‘ex’. E i divorzi sono sempre guai.
Concludendo la sua intervista con Al Jazeera, il premier giordano Khasawneh ha detto che i movimenti dell’esercito di Amman, nella Valle del Giordano, che così rende pubblici anche ai disattenti, «sono stati fatti per evitare infiltrazioni».
E che i tentativi dei politici israeliani, di separare Gaza dalla Cisgiordania e indebolire le autorità palestinesi «non produrranno né stabilità né pace e non saranno trascurati».